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iodanielblake2Compassione, commozione viscerale, rabbia, indignazione, sono gli ingredienti di Io, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove il regista ha sempre ottenuto calorose accoglienze. Analogo riconoscimento ebbe nel 2006 il suo struggente Il vento che accarezza l’erba. Così come pure Venezia e Berlino hanno premiato Loach con un Leone d’Oro e un Orso d’Oro alla carriera. Lui, ormai ottantenne, ha voluto tornare dietro la macchina da presa ancora una volta e con la grinta di sempre, affiancato dal suo fidato sceneggiatore Paul Laverty, racconta la storia di un carpentiere sessantenne e delle sue amare peripezie per sopravvivere cercando di mantenere la schiena dritta.

In seguito a un infarto, Daniel non può più lavorare ed è costretto ad affidarsi al sussidio statale. Si ritrova fagocitato in un percorso che si rivela aberrante e grottesco, tra scartoffie e incongruenze tragicomiche. Durante una delle tante visite al Centro per l’Impiego incontra Katie, una giovane madre che, sola e con due figli, si trova lei pure ad affrontare la melma della burocrazia per ottenere ciò che, di fatto, è un diritto. Tra Daniel, Katie e i due piccoli si instaura un’amicizia forte, tale da alleggerire le pene quotidiane. Ken ci offre una narrazione piana intorno ai contenuti del disagio e della solidarietà e la rabbia cresce nel vedere come e quanto debbano subire i suoi personaggi nel tentativo, spesso vano, di non farsi calpestare la propria dignità. Altrettanto Loach sussurra (forse) un alito di speranza che gli viene dalla sua fede socialista: gli uomini sanno aiutarsi, sostenersi, solidali nelle avversità. Non tutti sono ottusi aziendalisti, tronfi dietro il paravento di regole e divieti astrusi. C’è pure chi sa vedere oltre la propria piccola misura.

Nell’animo del vecchio regista rimane forse ancora vivo un sussulto di quella che un tempo era la coscienza di classe, la consapevolezza di essere ultimi e la necessità di stringersi vicini intorno al fuoco per riscaldare la propria esistenza e, soprattutto, trovare la forza per reagire fattivamente. O forse è solo il retaggio della storia di un grande vecchio del Novecento, Ken il Rosso. La sua macchina da presa è ancora viva e capace di graffiare il nostro sguardo, accarezzando a tratti l’anima, muovendo sapientemente le corde della tenerezza. Io, Daniel Blake si chiude sulle parole vibranti che Loach mette in bocca a Katie nel suo fermo incitamento ai Governi – quasi un J’Accuse – di non dimenticare che al centro del loro operare ci devono essere, innanzi tutto, i valori e la dignità di ogni essere umano.

Dario Arpaio

 

Il respiro del nuovo sole spazza via la cenere della notte. Io me ne sto in piedi, davanti alla finestra, quieto e pigro, fumo lento con la tazza del caffè in mano. Fra poco salirò in macchina alla volta di Arconate, a casa di Fabrizio Jelmini, fotografo, documentarista, reporter.

Mi soffermo a pensare come certi istanti si disperdano nelle stanze buie della memoria e come la vita sia, alla fin fine, uno sperpero di immagini in corsa. Domani, forse, non saremo più capaci di rintracciare i segni della loro comparsa. Una sveglia rotta ha più corpo e sostanza della nostra memoria fiaccata da un presente invadente.

E’ giorno fatto. Sto guidando lungo l’autostrada da Torino per Milano. Quante, quante volte l’ho percorsa, magari nell’ansia per gli incontri che mi davano lavoro. A volte sereno e soddisfatto. Altre me ne andavo con il magone per i segni contrari.

Oggi le montagne sono chiare e forti. Si possono distinguere canaloni e nevai. Un coro rassicurante.

Mi fermo nel solito autogrill. Un caffè e un croissant, come sempre a questo punto, lungo la stessa via. Mentre mi attardo a fumare nel parcheggio, chiamo Fabrizio e lo aggiorno sulla mia posizione. Più in là, un airone si alza in volo, solennemente. Le sue ali lo spingono verso nord. Quanta piccola meraviglia si sprigiona in questo giorno: sorprese in libertà. Quanto sono preziosi i frammenti di vita che poi magari sperperiamo nel mosaico dei giorni, senza quasi mai rendercene conto. Siamo davvero degli attori senza copione, pure distratti un po’.

Devo riprendere la strada. Non voglio tardare oltre. Fabrizio mi aspetta nel suo studio fotografico. Mi figuro nell’atto di entrare nell’antro di uno stregone, alchimista delle scale dei grigi, sapiente artefice di rasoiate di luce. Lo vedo affinare la sua interpretazione dei segni, quelli minimi, indifferenti al senso comune.

Oggi non siamo più capaci di guardare. Il nostro mondo è davvero saturo di immagini. Eppoi tutto va a finire nella memoria, e lì sta. In fondo ciò che vediamo è solo illusione, una proiezione relativizzata della realtà, magari uno scherzo degli dei per offuscare la verità. Quanti sono i fattori che giocano nella percezione visiva? Ma poi… a me importa poco… mi è sufficiente la consapevolezza che ci sono e vedo e penso e magari sogno, e… basta. E adesso sto vivendo dove vanno le ruote della mia auto e se mi portano altrove anche con la mente, ebbene ci gioco. E io ci sto al gioco e mi diverto!

E’ giunto il momento di lasciare l’autostrada. Bene! Manca poco alla meta. Parcheggio agevolmente nella piazzola antistante la casa studio di Fabrizio nel centro di Arconate. Stradine dal sapore antico. Suono il campanello di un grande portone in legno, di quelli che una volta vedevano entrare i carri. Fabrizio mi accoglie a braccia aperte. Percorriamo il vialetto nel mezzo del cortile ed ecco l’antro del mago aprirsi e chiudersi dietro le mie spalle, rivelandomi meraviglie non immaginate in così tanta bellezza di fattura. Il piano terra è dedicato allo studio fotografico ed è così ricco e perfetto in ogni dettaglio. Può anche essere rifugio notturno dopo chissà quale intenso lavoro di preparazione di un servizio o altro. In fondo all’unica grande sala dai muri rossi una scala a chiocciola conduce al piano superiore, all’abitazione di Fabrizio e di sua moglie Monica. Sento l’abbaio di un cane, un cagnone. E’ una femmina, Uma, un bracco italiano, la cocca di Monica. Tenera e dolcissima, un po’ timida: una cagnolona dagli occhi grandi. In fondo allo studio, da un lato, c’è un grande cuscinone tutto per lei. Come si conviene ad una regina.

Ovunque le foto appese, o semplicemente appoggiate ai muri rossi, catturano il mio sguardo. Mi rigiro. I miei occhi scivolano sulle foto che raccontano la storia professionale di Fabrizio, la sua vita. Sono estasiato davanti ai ritratti stampati su tela in grande formato. Sono autentiche esplorazioni nell’intimo delle storie di migranti, come in un backstage delle vite diverse. Grande ammirazione per i più piccoli quadretti, rigorosamente incorniciati con legni di recupero. Fabrizio mi illustra le sue originali creazioni con lecito orgoglio. Traspare in esse il ricordo vivo dell’artigianato del nonno falegname. La storia di generazioni antiche si svela man mano che discorro con lui, fotografo, documentarista, giornalista, esploratore della vita con rara sensibilità. Il padre di Fabrizio faceva il panettiere. Quel suo fare notturno di fuoco e farina ha lasciato in Fabrizio il senso dell’amore per il proprio lavoro e il rispetto per quello altrui. Una religione di vita. Mi riprometto prima o poi di portare a Fabrizio il mio pane, quello che via via mi sono incaponito a saper fare. Ecco, è proprio il ‘fare’ che domina i nostri discorsi, li pervade in ogni rima. Un fare antico, a tratti dilapidato nostro malgrado, smarrito in un mondo attuale che rincorre il profitto, a ogni costo, senza decoro, sacrificando la dignità creativa, più del necessario. Il fare antico era artigianato schietto racchiudeva uno sforzo fisico tale da esprimere il progetto nella sua verifica. Quanta maestria in quel fare. Un cammino che si riassumeva in un che di notturno verso una meta sconosciuta, rivelata magari solo all’alba.

Quanta luce traspare dalle parole di Fabrizio. Tanta quanta emana dai finestroni che sono una intera parete dello studio laboratorio. Mi racconta di qualcuno dei suoi servizi. Quello tra i ragazzi handicappati di Arconate. L’altro per le moto di un designer amico. O a cercar l’acqua con le donne e i bambini nei pressi di Sekota, nel nord dell’Etiopia. E ancora via attraverso cento Paesi in un girotondo intorno al mondo all’inseguimento dell’immagine perfetta, quella che non esiste, ma che, magicamente, spinge, pungola la ricerca. Quanta passione e quanto sacrificio.

Mentre discorriamo sento i passi della fatica fisica del mio scrivere. Non c’è differenza con il suo lavoro che inizia con la scelta dell’inquadratura, poi lo scatto e il culmine nella camera oscura, salvo giocare con il digitale sul computer. Si sciorinano formule matematiche di sviluppo e stampa. L’odore degli acidi colora il buio e solo la luce rivela il lavoro compiuto. Tutto come nell’attesa davanti alla pagina bianca che attende il tocco calligrafico di un sogno (o di un incubo). Consonanti che balbettano vocali. Così come la danza dei volumi, degli spazi che si incastrano in diagonali di lettura. L’arte, quale ne sia l’origine o il fine, è un fare che si inventa e realizza nella solitudine del proprio sudore.

Mentre discorriamo Fabrizio monta la Leica sul cavalletto. Mi fa sedere su di uno sgabello al centro dello studio. La luce dei finestroni mi colpisce a destra. Discorriamo mentre si susseguono gli scatti e i ritratti di me, forse un po’ sognanti o malinconici, così come la piegatura degli occhi lascia intravedere o supporre. Poi Fabrizio si siede alla scrivania. Scarica nel computer le foto e lavora alla selezione. L’occhio della Leica mi ha attraversato forse l’anima, ma è la mano di Fabrizio che ha condotto la danza delle ombre sul mio volto. Io ho raccontato della mia poesia e lui ha tradotto le mie parole nei ritratti. Come in una jam session non smettiamo neanche un istante di incrociare e articolare le nostre visioni di un giorno, di un attimo di vita, di un fiato, o magari i volti di coloro che abbiamo incontrato e conosciuto che emergono dal nostro passato e si riaccendono nelle nostre parole, sempre troppo esili o avare nel ricordo.

Salutiamo Monica impegnata per tutto il tempo al piano di sopra nel suo lavoro di preparazione degli atti di un convegno dove sarà relatrice. Andiamo a pranzo io e Fabrizio, da soli. Mentre ci accingiamo a uscire, Uma ci corre incontro. Si ferma sull’uscio. Ci guarda mentre attraversiamo il cortiletto. Il grande portone di legno si chiude dietro le nostre spalle. La intravedo voltarsi e rientrare scondinzolando al richiamo di Monica.

Percorriamo la strada provinciale che da Arconate porta a Castelletto di Cuggiono. La nostra meta è la Trattoria del Ponte dove ci aspetta qualche buon piatto di pesce. Continueremo la nostra chiacchierata intorno ai misteri della luce e le sue forme passeggiando lungo l’alzaia del Naviglio Grande.

Eccoci sull’antico canale che dal Ticino e arriva fino alla darsena di Porta Ticinese a Milano. Siamo nel Parco del Ticino e, camminando lungo l’alzaia, una via così ricca di storia, ho come la sensazione di scorgere le sagome di mille e mille ombre. Il richiamo sommesso di coloro che furono, che vissero e che fecero la storia: artigiani, maestranze, i lavoratori tutti che parteciparono alla costruzione del Duomo di Milano. Da questo canale transitavano i barconi trainati dai buoi, che trasportavano il materiale da costruzione e i marmi provenienti dal lago Maggiore. Attraversiamo il piccolo ponte ricostruito in muratura nel ‘600 (prima era in legno). Quì pare che nel 1200 sia stato linciato un podestà. I suoi concittadini furono aizzati dal clero che non accettava di pagare le tasse richieste. Corsi e ricorsi.

Ci concentriamo, Fabrizio e io, su di una caraffa di vino bianco, uno chardonnay degno accompagnamento a una buona frittura di pesce. E così via fino a gustare un buon whisky, rigorosamente single malt. Il proprietario della Trattoria del Ponte ne ha una ricca collezione. Ai muri sono appese una dozzina, forse più, di copertine della Domenica del Corriere, quelle magnificamente disegnate dal grande Walter Molino. Lui ha fermato la storia nelle sue immagini.

Sento prepotentemente la commistione della piccola con la grande storia. Il nostro esistere lascia una traccia, anche nostro malgrado, e, perché no, quest’acqua che scorre nel canale forse ne racchiude la memoria viva. Come un sussurro è come se ci ammonisse placidamente: “Vivila intensamente la tua piccola storia… Hai solo questa… Io ritorno sempre in quella grande… Tu fuggirai via… ma, non temere, io porterò di te almeno un fiato… Non dimenticare… Tu sei tutti coloro che sono stati prima di te e sarai in tutti quelli che verranno dopo… Anche i ciottoli nel mio greto lo sanno…”.

Dopo pranzo camminiamo lungo l’alzaia in silenzio. Fabrizio si ferma e scatta qualche foto con la sua Leica. Io pure raccolgo qualche istantanea di lui all’opera. E’ un autentico testimone del suo tempo, un archivista di mille volti, di mille e mille storie. Poi mi racconta di quando ragazzino veniva a giocare quì con i suoi compagni. Nuotavano anche. E c’erano le feste dell’estate.

Passiamo davanti al palazzo Clerici. Una costruzione imponente che ci osserva di là della sponda dalle sue 365 finestre e 12 balconate. Tante quanti i giorni e i mesi dell’anno ne avevano voluto i Clerici, prosàpie di banchieri del 1700, ricchi e desiderosi di competere con la nobiltà milanese del tempo. Ora la grande scalinata barocca che scende fino al canale è muta. Non accoglie più gli invitati alle feste dei padroni di casa, che qui giungevano per la via d’acqua.

Ermanno Olmi, poco avanti, ha girato alcune scene del suo Albero degli Zoccoli, in quel suo sublime canto della dignità della miseria contadina.

Sono quasi ubriaco di storie e di volti. Questo giorno mi sta avvolgendo in una vertigine magica. Ho la sensazione di essere un mediocre cronista chiamato a raccontare di storie e altre storie. Fabrizio mi racconta dei suoi, di un tempo ancora giovane. Tutti loro segnavano forte una matrice di un fare. Lui, ora, lo sublima nelle sue fotografie.

Mi racconta anche di un bracconiere che pescava di frodo per dar da mangiare alla sua famiglia. Conosceva bene i posti dove lanciare la lenza. Si faceva anche scrupolo di alimentarle le ‘sue’ acque. Dove i pesci non si riproducevano, lì rimetteva in acqua ciò che aveva appena pescato e forse non serviva all’immediato bisogno. Sarebbe poi tornato a raccogliere a colpo sicuro nuovo cibo. Un fare armonioso e attento agli equilibri della natura, non scabro o dissennato. La vita continua solo con nuova vita.

Oggi l’alzaia del Naviglio Grande è anche una pista ciclabile frequentata da quei ciclisti che si vestono da arlecchini e che nessun rispetto nutrono per chi va a piedi.

Camminiamo lenti. Le parole non servono poi così tanto. Il silenzio ci rende complici nel nostro fare, partecipi l’un l’altro di un giorno di piccole meraviglie. Rientriamo ad Arconate. Saluto Fabrizio e riprendo l’autostrada per Torino. Mi fermo al solito autogrill per una sigaretta. Ascolto Johnny Cash. Un airone si alza in volo, solennemente. Forse è lo stesso di stamattina.

 

Dario Arpaio

 

Vorrei un treno di notte.
Un treno che respira
gli odori acri
del velluto di seconda classe.
Un treno dalle luci acide
percosse dal buio.
Se ci salgo su
allora mi accomodo
in uno scompartimento vuoto.
Ripongo lo zaino della mia storia
sulla cappelliera del tempo altrui.
Raccolgo le mie braccia
sul tavolinetto pieghevole.
Ci appoggio il capo e
salto fuori dal boccascena
della vita provvisoria.
Gli occhi, liberi dal sonno,
l’incollo al finestrino.
Corro io pure dietro il vetro,
per un orizzonte bizzarro
mascherato a notte.
Mi assalgono
sagome improvvise
di giganti e castelli
impossibili tra le stelle
percosse dalle balestre
del mio treno vorace.
Lo vorrei
questo treno di notte
per tornare al viaggio
nella memoria di bimbo,
libera dalla noia
straniera e sfacciata.
Ma poi scopro che
non tornano i conti
della mia età
e i binari restano là,
sudici assenti
e immobili
nella sonnecchiante
improvvida attesa
di un evento qualunque.
Sulla massicciata vedo
un fagotto di cenci,
stracco mi saluta.

On y va! Dunque, è l’ora. Monto in sella all’Honda alle 07:30 del 26 agosto. Torno in Francia, questa volta nel cuore della Borgogna o un po’ più in là. Vado nei pressi diTreigny. Là, da vent’anni a questa parte, si costruisce lechâteau de Guédelon, un “autentico” castello del XIII secolo, una sorta di ardita scommessa di archeologia costruttiva sperimentale. Ogni tecnica e materiale, ogni strumento utilizzato rispecchia fedelmente ciò che poteva essere nel corso della nascita di un castello nel Medioevo. Magnifica avventura!
Ma sono appena partito da Torino… La strada è lunga: verso il Frejus e poi Lione, quindi Macon e più ancora a nord ovest. In totale circa 700 km. Conto di arrivare in serata a Bléneau dove ho riservato un stanza in un alberghetto dal quale poi raggiungere il castello di Guédelon in una mezz’ora di strada. I primi 100 km fino al Frejus volano via in un attimo. Attraversata la galleria, rigorosamente a 70 all’ora come prescritto, si va in Savoia. Il traffico è regolare nonostante i rientri dei francesi dalle grandes vacances. Diventerà più intenso e noioso intorno a Lione. Il caldo, però, non lo avevo previsto così terribilmente feroce. Lungo la A6 si susseguono cartelli che allertano per possibili colpi di calore e invitano a una continua reidratazione. Siamo ben oltre i 36-38° segnalati dal meteo. Mi fermo spesso per liberarmi del casco e della giacca da moto. Bevo molta acqua e integratori. Noto che anche le grandi pale eoliche, che si incontrano a tratti, sono surrealisticamente immobili.
Lasciata l’autostrada mi faccio guidare dal gps del telefonino. Oops! E’ bloccato. Scotta. Che sia morto? No, per fortuna è solo surriscaldato. Non ce la fa con quel caldo. Una nuova scusa per fermarmi a fumare un’altra sigaretta e allontanare la canicola per qualche istante. La sentiamo tutti, io e il cellulare, e anche la moto può respirare. Finalmente arriviamo a Bléneau. Le strade provinciali sono deliziose in questa parte di Francia. Tagliano foreste di alberi di alto fusto. Saliscendi dolcissimi tra basse colline di verdi variegati che si aprono agli improvvisi fragorosi gialli dei campi al sole. Chissà se Van Gogh è passato anche di qui. Spero per lui che non facesse tutto questo caldo…
Riassaporo la gioia delle due ruote. Respiro e gioisco al saluto degli alberi che sfilano al mio passaggio. Rare le auto che incrocio.
Ed eccomi, il mattino seguente, all’ingresso del castello di Guédelon. All’apertura (ore10:00) il grande parcheggio è già colmo di auto. Più tardi arriveranno anche alcuni pullman. Ho già il biglietto d’ingresso, acquistato su internet. Costa 12 euro online. Viceversa costerebbe 14. Noto, con un certo disappunto, che non ci sono mappe in italiano. Chissà perché, dal momento che sono presenti in inglese, tedesco e olandese, oltre al francese stesso. Comunque a me non crea problemi. Il castello, ormai in avanzata fase di costruzione, mi aspetta lì davanti.
Nel 1997 Michel Guyot, già proprietario del castello di Saint-Fargeau, decide di dare il via a una fantastica iniziativa. Provare a costruire ex novo un castello del XIII secolo, seguendo i criteri di un’archeologia sperimentale nelle tecniche costruttive dell’epoca, utilizzando esclusivamente materiali autoprodotti in loco con l’utilizzo di utensili e macchinari simili a quelli del tempo. Intorno al castello sono state via via edificate anche le botteghe necessarie. Si possono vedere all’opera i carpentieri, i tintori, il fabbro, il cordaro, i tagliapietre, i fabbricatori di mattoni e così via, creando l’illusione di un tuffo nel passato. Proseguendo la visita tra le varie cabanes degli artigiani mi dirigo verso un largo sentiero nella foresta e, costeggiando le rive del laghetto che fornisce tutta l’acqua necessaria, arrivo dopo circa 500 metri al mulino, una delle opere più interessanti del sito. Il mugnaio mi spiega che è stato costruito seguendo fedelmente gli indirizzi e i suggerimenti degli storici e degli archeologi che hanno collaborato attivamente in varie fasi e che gli unici attrezzi utilizzati sono stati l’ascia e il coltello. Una volta aperta la chiusa, l’acqua corrente mette in moto un meccanismo pressoché automatico, incredibile se si considera che veniva utilizzato già nell’anno Mille. A questa e altre meraviglie possono partecipare le scolaresche. Uno degli intenti del sito è anche quello didattico, non solo, ci si può offrire come volontari e partecipare per un tempo limitato alle fasi di costruzione dell’opera che secondo le stime dovrebbe essere ultimata nel 2023.
A tutt’oggi Guédelon richiama oltre 300.000 visitatori l’anno. Che dire poi dell’interno del castello. I pavimenti sono stati composti con i mattoni di argilla cotti nel forno legno poco distante dalla roccaforte. Le decorazioni delle pareti sono state create con le terre di ocra fatte dagli artigiani. La volta del salone principale è uno spettacolo di travi a incastro dove non è utilizzato neppure un chiodo in ferro! I minuti corrono veloci. Lo stupore si rinnova a ogni passo.
Mangio un panino al self service e mi delizio con una birra. Evito il ristorante medievale, già troppo affollato per i miei gusti. Acquisto qualche souvenir di produzione Guédelon alla boutique. Sono trascorse più di quattro ore da quando sono arrivato. Il caldo è terribilmente afoso. E’ ora di ripartire.
Rimonto in sella e dopo aver tracciato un itinerario di massima mi dirigo verso Nevers. Non corro. Non ho fretta. Mi sazio del cielo e… di un altro caffè e un mezzo litro di acqua gelata durante una sosta nell’unico bar di in un paesino dalle strade ordinate e pulitissime. La vita pare sciogliersi in un ritmo rallentato e sereno.
Arrivo a Nevers. Cerco una camera per la notte. Già domani si torna a casa. Altri obblighi richiedono il mio rientro. Prima o poi ripartirò all’inseguimento di quel chilometro sempre oltre, più avanti alle mie due ruote.

Dario Arpaio

Nel Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, accade tutto dal tramonto all’alba in una terrazza di fronte al mare. E’ lì che cinque amici si danno appuntamento per festeggiare il ritorno di uno di loro dopo una fuga durata 16 anni. E ricordano la loro giovinezza, i sogni, i giochi, ma soprattutto la speranza in un sistema nuovo che sembrava prossimo a realizzarsi. Era come se tutto il mondo stesse a guardarli. Non davano peso alle fatiche del lavoro nei campi di canna da zucchero o di tabacco che il regime imponeva agli studenti per farne degli ‘uomini nuovi’. Si divertivano, nonostante la povertà. Ma le ambizioni artistiche e i sogni, quelli si sono poi sperperati nella piccola storia incapace di contrastare gli eventi e lo scorrere inesorabile del tempo. Si incontrano su quella terrazza dopo quarantanni, si abbracciano, litigano, si rinfacciano errori o presunte vigliaccherie. Non sono eroi. Si rovesciano addosso l’amarezza di una realtà ben lontana e diversa da quella tanto attesa. Il pittore non dipinge più altro se non croste per sopravvivere. Chi scriveva romanzi, ha perso l’estro e non scrive più. Chi è medico, se la cava a stento. Anche l’ingegnere si adatta a lavorare come operaio. L’unico ad aver fatto carriera, ha accettato compromessi di dubbia moralità. Si commuovono nell’ascoltare California Dreamin’ dei Mama’s n Papas, che anni addietro era proibito. Ancora si schierano vivacemente tra Beatles e Rolling Stone. Le ore scivolano via nel buio della notte fino a lasciare lo spazio all’alba. Loro si sono ritrovati, i livori sopiti sono stati fugati. La vita passata si è sbriciolata nella malinconia di un giorno qualunque.

laurent_cantet-ritorno_avanaIl Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, uno dei maestri del cinema francese contemporaneo, è stato scritto a quattro mani con Leonardo Padura Fuentes, romanziere cubano assai noto in patria, il cui apporto è stato fondamentale per la riuscita dell’opera. La collaborazione tra i due ha consentito a Cantet di rendere vera una visione di Cuba, da lui molto amata pur con tutte le sue contraddizioni. Ha optato per una regia basata su dialoghi serrati esaltati da primi e primissimi piani. Sono gli occhi, le rughe e le voci degli attori a dare corpo alla malinconica e rassegnata disillusione dei personaggi. Eccelle in crescendo il cammino registico di Cantet, già vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con il suo La Classe – Entre les Murs. Il suo occhio insegue, va in cerca della realtà di personaggi senza clamore, li rende vivi, attuali. Il Ritorno a L’Avana è stato premiato a Venezia 71 come miglior film nella sezione ‘Giornate degli Autori’. Davvero felice la sua scelta di concentrare con un azzardo la vicenda in un arco temporale ristretto, esaltandone la forma nel dialogo, come a voler raccontare la vita in quanto tale, senza orpelli, attraverso la macchina da presa fissa sui personaggi con l’oceano in contraltare lontano, quasi in ascolto delle storie narrate su di una terrazza agita come un palcoscenico in un teatro sovrastante la città. Quella che vorrebbe anche essere l’Itaca del titolo originale, un luogo nel suo passato, un mito a cui anelare, quello della giovinezza perduta, del sogno infranto in un mondo nuovo che non s’è avverato.