Occhei. Durante una sosta a Breil s/ Roya incontro un ragazzone olandese, disperato per essere scivolato lungo la statale del tunnel del Col di Tenda con la sua nuovissima Africa Twin. Risultato: un po’ di spavento e la rottura totale della pedana di destra. Non parla francese. Lo aiuto a farsi capire dal meccanico (di auto) appena arrivato con il suo carro attrezzi. L’arzillo francese, però, non parla inglese. Insomma, riesco a risolvere, almeno in parte, la situazione: la moto viene caricata sul carro attrezzi e riparata nella rimessa del meccanico in attesa di un camion che l’assistenza dell’olandese, con la quale il ragazzo, nel frattempo, ha scambiato alcune telefonate concitate, invierà il sabato stesso. Già, perché siamo a venerdì pomeriggio e il viaggio del ragazzo è fottuto.

Lui se ne torna a casa con il treno da Nizza. La delusione traspare dai suoi occhi in maniera così smaccata da farmi sentire davvero dispiaciuto per lui. E’ che in un viaggio in moto i rischi si corrono, eccome! Ma andiamo per ordine.

Un passo indietro fino a mercoledì mattina. Di buon’ora monto in sella. Parto da Torino alla volta di Saint Remy de Provence. Ho prenotato un alberghetto con piscina nella speranza di aiutare poi la mia schiena, almeno con una nuotata ristoratrice, dopo i 500 km del tappone iniziale. La povera schiena, in effetti, ha vivacemente protestato durante tutto il viaggio. Che ci posso fare?

Dopo vari ripensamenti iniziali decido di utilizzare solo l’autostrada, passando per il tunnel del Frejus fino alla deviazione di Grenoble per Valence/Avignon, così per guadagnare tempo. Mi propongo di attraversare le spettacolari gorges du Verdon al ritorno, per dare più ampio respiro a me e al mio girovagare in moto.

Il pretesto del viaggio, di fatto, è la visita alla video installazione di Carrières de Lumières a Les Baux de Provence: Bosch, Brueghel e Arcimboldo spalmati sulle pareti della cava di bauxite in disuso. Magica esperienza.

Per meglio andare in moto ho indossato una fascia lombare con lo scudo protettivo della Dainese. Le protezioni in moto sono d’obbligo. Però la stessa si rompe, ovvero, il velcro, ormai frusto, non tiene. Tutte le vibrazioni e i sobbalzi si ripercuotono senza pietà, proprio là dove la mia schiena soffre di più. Sono costretto a svariate soste. Sigh! Ne avevo previste di meno! Vado avanti a caffè e sigarette.

Sta cominciando ad alzarsi anche un fastidioso forte vento di maestrale, che non mi lascerà fino a giovedi pomeriggio.

Giunto a Saint Remy mi affido al navigatore del cellulare così da trovare agevolmente le indicazioni per l’hotel. C’è molta gente per le strade di quella che è, di fatto, una cittadina nel pieno della stagione turistica. La Provenza è davvero fruibile partout. Le colline si rincorrono dolcemente, avvolgono il viaggiatore cullandolo in un’atmosfera dai colori caldi e tenui. Non a caso grandi pittori vi han trovato ispirazione e ristoro. Tra i tanti, Vincent Van Gogh, le cui tracce non mancherò di seguire ad Arles.

L’hotel è situato appena fuori dal paese. Ha l’aspetto di una casa patrizia trasformata per un’accoglienza familiare. Il giardino è ordinato e ricco di piante e la piscina rappresenta un richiamo irresistibilmente piacevole.

Sono troppo stanco. Ho solo voglia di impigrire seduto su di un comodo divanetto in giardino, in compagnia di una birra ristoratrice.

Dispongo per la cena con Joel, lo chef, simpaticissimo, con il quale scambio amabilmente qualche chiacchiera. Ha lavorato anche in Italia, in Val di Susa. Conserva di quell’esperienza un buon ricordo. Si complimenta con me per il mio (mediocre) francese, secondo lui più che buono per ‘essere un italiano’. Non capisco bene cosa voglia intendere.

Lascio perdere e salgo in camera. Una lunga doccia seduto nella ampia cabina mi rinfranca non poco. A cena mi aspetta un’orata freschissima.

Al mattino seguente approfitto dei croissants (sono la mia passione!) e delle marmellatine fatte in casa. Il caffè francese fa schifo, come sempre.

Eccomi di nuovo in sella. Il vento, ove ancora possibile, è rinforzato non poco rispetto al giorno prima. Guido provando molto fastidio fino a perdere il gusto per quelle stradine collinari. Il panorama d’intorno richiederebbe più di una sosta, almeno per qualche scatto, ma voglio arrivare a Les Baux per essere alla mostra il più in fretta possibile.

E’ molto frequentata, vorrei anche evitare la ressa dei visitatori che, giocoforza, limiterebbero il piacere e la libertà di riflessione. Ho già il biglietto. Timbratolo alla cassa, attraverso una portina e… mi ritrovo in una penombra ricca di magia.

Una splendida equipe, tutta italiana, ha ideato questa particolare forma di video installazione, collocandola in un sito idealmente perfetto: una cava di bauxite in disuso.

Attraversando un percorso dolcemente sinuoso, contornato dalle alte pareti di roccia, si vive penetrando nei dettagli, anche i più minuti, delle opere pittoriche di Bosch, Brueghel e, infine, Arcimboldo. In precedenza la mostra ha già offerto percorsi altrettanto fascinosi intorno a Klimt, Van Gogh e altri. I quadri sono scomposti in tessere, riassemblate e abilmente proiettate sulle bianche pareti in un continuum narrativo calibrato su scelte musicali perfette. Un’animazione davvero raffinata, capace di fare spettacolo, e soprattutto di intendere e penetrare l’opera pittorica dell’artista di turno in maniera davvero intensa e insolitamente avvincente.

 

Cammino lentamente, estasiato e sopraffatto dalla magnificenza della visione, davanti e tutto intorno, anche sul pavimento in un continuo mutamento. Nella penombra si affacciano piano per poi esplodere colori e forme, visi e paesaggi, in un tripudio come di fuochi di artificio.

Nelle orecchie risuonano le note delle musiche di Luca Longobardi, Carl Orff, e ancora, Vivaldi, Mussorgskij. La proiezione sfuma infine su di una versione acustica di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, che davvero mi emoziona.

Sarà anche la temperatura interna, intorno ai 15°C, tant’è che altri come me si dirige alle toilettes. All’improvviso resto per un attimo sorpreso dalla luce esterna e, ahimè, lassù in alto, al di sopra di una parete di pietra, vedo un albero sbattuto a destra e sinistra dal vento. Ho lasciato la moto parcheggiata in pendenza e poggiata solo sul cavalletto laterale. Spero non doverla rialzare da terra: il vento è davvero impetuoso.

Bevo un caffè, per non perdere il vizio. Rientro nella cava per riassaporare altri momenti. In men che non si dica sono entrati molti visitatori. Anche troppi, per i miei gusti.

Dopo qualche incertezza guadagno l’uscita. La moto è ancora in piedi. Vado ad Arles.

Abbandonate le colline mi intrufolo nel traffico intenso della città. Parcheggio in centro. Vado a chiedere suggerimenti per la mia breve visita all’ufficio del turismo.

All’interno mi metto di buon grado in coda. Quanti turisti! Alla macchinetta, che rilascia i bigliettini per la priorità, ho selezionato la lingua italiana. Non che abbia bisogno di un’interlocutrice che parli la mia lingua, ma è così insolito avere questa chance che ne sono lieto. In attesa sbircio tra i vari gadgets in vendita. Intorno a me si accalca un’umanità varia e colorata. Arrivato il mio turno scopro che la signorina dietro il banco parla solo francese. Vabbè…

Approfitto di un dépliant con le indicazioni per seguire un percorso dedicato a Van Gogh e ad alcuni dei siti raffigurati nei quadri, frutto dei 15 mesi trascorsi ad Arles, durante i quali ha dipinto quasi 300 opere, oltre a litigare animatamente con Gauguin. Eppoi penso al dopo Arles, ovvero, magari poi me ne vado a Marsiglia, Aigues Mortes o a Aix en Provence, dove potrei anche cercare le tracce di Cezanne. Esco dall’ufficio del turismo. Non ne potevo più della ressa dei festosi gitanti…

Imbocco rue Jean Jaurès verso place de la Republique, ma poi mi stufo di seguire la mappa turistica. La piego e la metto in tasca. Vado a naso e mi ritrovo proprio davanti al Cafè Van Gogh in place du Forum. Sinceramente provo una certa emozione, anche se, ormai, il luogo emana un che di posticcio, di artificioso a solo uso e consumo del turista frettoloso.

Ho fame. Ottima birra e pessima entrecote consumati nel dehors dove Van Gogh ha certamente trascorso molto del suo tempo. Ho fatto la pipì nella toilette, situata al piano superiore, la stessa che pure lui ha usato…

Nel dehors scambio qualche parola con due amabili signore americane. Sembrano uscite da un episodio di Lucy ed io, tra i tanti resi irresistibili dalla rossa Lucille Ball nei primi anni ’50.

La gente nella piazza va e viene, magari si ferma davanti al cafè Van Gogh, tutto scrupolosamente tinto di giallo, magari scatta una foto e se ne va, distrattamente.

Chissà quali e quanti tormenti ha vissuto Vincent seduto proprio tra queste sedie, davanti a questa piazzetta. Pare che una sera abbia lanciato un bicchiere addosso a Gauguin, durante una delle tante burrascose litigate tra i due.

In fondo rientra tutto nella ‘lila’, il gioco degli dei, dove il mondo è solo una simulazione beffarda un po’: i turisti si fanno un selfie davanti ai luoghi della disperazione di Van Gogh e io recito la mia parte di viaggiatore davanti a un pubblico invisibile.

Me ne vado. Non ho voglia di andare a vedere l’Anfiteatro, neppure la ‘casa gialla’ di Vincent che scopro essere diventata lilla. Ho deciso che preferisco montare in sella alla mia moto per guidarla lenta sulle colline d’intorno.

Invece, camminando distratto, mi ritrovo davanti all’ingresso per la visita dei Criptoportici. Bene! Andiamo a dare un’occhiata a cosa i Romani hanno combinato.

Alla cassa pago il biglietto di ingresso di euro 4,50. La signorina mi porge una guida consistente in 4 pagine plastificate che illustrano ciò che sto per vedere. Davanti a me la sta leggendo molto attentamente una magnifica giovane ragazza straniera. E’ bionda, alta, statuaria. Sembra davvero molto interessata ai criptoportici: magari è una studiosa, chissà.

Stimolato dalla sua serietà, mi incuriosisco io pure, ma scopro che questi criptoportici altro non sono che delle fondamenta di sostegno del palazzo superiore o della stessa piazza. In effetti si scende nel sottosuolo per una doppia rampa di metallo. Ci si trova davanti a un largo camminamento contornato alla destra da un porticato. Dopo una cinquantina di metri si gira a destra per una quindicina di metri e ancora a destra si va avanti nella penombra per altrettanti cinquanta-settanta metri, forse di più e giunti alla fine del percorso… si torna indietro senza avere visto nulla di assolutamente interessante.

Recupero la moto e lascio Arles. Dove vado di preciso non so ancora. Certo a est. Evito il vento (basta!), che sull’autostrada sarà certamente molto intenso, mi dirigo verso una provinciale all’interno.

Si rinnova, con mio sommo piacere, la dolcezza della guida su e giù per le colline. Mi sciacquo l’anima.

Però non ho ancora deciso dove andare. Arrivato nei pressi di Marsiglia, devo trovare una méta. Mi fermo per un caffè e una sigaretta.

Un’occhiata alla cartina mi porta a Draguignan, una cittadina all’interno, ben oltre Marsiglia, in direzione Nizza. Faccio un rapido check sul cellulare e trovo un hotel che potrebbe anche fare al caso mio. Telefono. Prenoto una camera. Via così! Si va a Draguignan, ma solo per una sosta notturna. C’è ben poco da scoprire in quella città se non una buona trattoria.

In effetti Draguignan si presenta come un’anonima cittadina della provincia francese. Alla reception vengo accolto con estrema gentilezza e direi quasi simpatia. La moto è parcheggiata in un cortile interno, dal quale accedo all’hotel, passando per un piccolo giardino dove giganteggia un grande albero.

L’hotel di due piani è un ‘sopravvissuto’ della belle epoque. C’è anche una grande sala biliardo dove un tale, pelato, gioca da solo. L’uomo della reception mi offre una birra. Già, perché al momento di pagare il conto scopro che non mi ha addebitato alcunchè, né per la birra, né per una bottiglia d’acqua. Quasi non ci credo.

In giardino mi rilasso con la mia birra e dò una nuova occhiata alle cartine della Provenza. Mi viene in mente che l’indomani potrei andare a salutare Zoubir, l’albergatore franco algerino, conosciuto qualche anno prima a Peymeinade, vicino Grasse. Ricordo l’uomo con molta simpatia.

Nel frattempo è ora di cena. Faccio due passi per il centro di Draguignan. Dall’hotel mi è stata indicata una trattoria, La Table de Martine. Si rivela una buona scelta.

Seduto nel dehors gusto un vino bianco locale, forse uno chardonnay, davvero gradevole a sostegno di un’ottima orata. Chiacchiero con il titolare figlio di una napoletana e di un sardo. Me ne torno pigramente in hotel.

Mi sveglio alle 5. La grande finestra è aperta sul giardino illuminato dalla luna piena. La vedo che quasi ammicca al grande albero. Assaporo questo momento e mi lascio pervadere da una serena quiete. Dal letto, con il cellulare, scatto una foto alla grande finestra aperta e alla visione di ciò che mi offre, ‘cazzeggiando’ un po’ alla Magritte.

A colazione incontro un biker svedese. Viaggia ormai da alcune settimane in sella a una BMW R9T, una stradale che mi conferma non essere proprio così confortevole per un viaggio così lungo… Gli rispondo che l’importante è partire, un mezzo vale l’altro, che sia una endurona o una Vespa, non cambia l’essere ‘navigatori di terra’, come afferma il mio amico Italo. Ci salutiamo augurandoci vicendevolmente buona strada.

Vado a cercare il mio amico Zoubir a Peymeinade. Altre colline per altre dolci strade accompagnano i miei pensieri. Mi sento davvero bene (nonostante il persistente fottuto fastidio alla schiena).

Giunto all’hotel de La Poste chiedo di Zoubir. Purtroppo ha ceduto l’attività. Peccato! Ricordo con grande piacere le amabili chiacchierate sul senso della vita, per non dire poi dei magnifici cous cous preparati dalla moglie.

Attraverso Grasse. Ogni volta che ci ritorno, mi sembra sempre un po’ più caotica. Vado a Nizza, che è anche peggio. E’ ormai ora di pranzo. Mi fermo in place de l’Armée di qualcosa… Sembra di essere a Napoli all’ora di punta. Clacson e confusione a volontà.

Consumo una ottima insalata niçoise, ricca e ben condita. D’altra parte… Opto per il breve percorso autostradale fino a Ventimiglia da dove mi inoltro per la valle del Roya fino al tunnel di Tenda. Sciocco! Avrei potuto prendere la strada per Sospel, ben più panoramica e divertente. Sarà anche questa per la prossima volta, mi ripeto, oggi, a distanza di qualche giorno.

Faccio ancora una sosta all’ultimo autogrill francese per una ricarica veloce del cellulare con la batteria di riserva. Faccio conoscenza con una simpatica famiglia giapponese. Sono diretti in Trentino. Suggerisco loro possibili vie alternative al traffico congestionato di Milano che li coglierebbe forse alla sprovvista. Sono molto cordiali, mi ringraziano e mi augurano la buona strada.

Sono attese forti piogge per il giorno seguente. Decido comunque di passare la notte a Breil dove incontrerò il ragazzone olandese e la sua povera Africa Twin incidentata di cui ho già detto.

La cameretta del piccolo hotel è decorosa. Mi affaccio alla finestra. Alla mia sinistra vedo il campanile della chiesetta. Adoro il suono delle campane, ma questa volta è come averlo direttamente in camera! Un po’ troppo, n’est-ce pas?

Alle 8 del mattino, dopo una frettolosa colazione a base di un ottimo croissant e di un pessimo caffè, asciugo la moto bagnata dalla pioggia notturna e mi avvio verso il tunnel.

Sono pressocchè solo lungo la statale del Tenda. Rallento. Mi gusto il magnifico contorno di rocce al corso del torrente Roya. Non ricordo esattamente dove, ma ho avvistato un gruppo di ragazzi che si preparava per una qualche forma di rafting. Ed ecco i primi tornanti che in successione portano alla galleria.

Non incrocio quasi nessun veicolo fino al semaforo, quello che regola l’accesso alternato al tunnel. Attesa 15 minuti. Faccio la conoscenza di un ragazzo belga, che, in sella alla sua vecchia GS, sta andando a raggiungere alcuni amici per un campeggio sulle coline genovesi. Lo aspetta una gran pioggia. Io sto cercando di evitarla.

Via così per i successivi 8 tornanti che separano il tunnel da Limone Piemonte. Poi raggiungo Cuneo, dove imbocco l’autostrada per Torino, assai poco frequentata. Ne approfitto per lasciare sfogare la moto.

In un autogrill sulla Torino-Savona incontro una coppia di olandesi sulla quarantina i quali mostrano qualche curiosità intorno alla moto. Gli rispondo in inglese, ma lui mi riprende in un buon italiano che sfoggia molto orgogliosamente. Bravo!

Il viaggetto è alla fine. Avevo meticolosamente preparato un itinerario che ho poi piacevolmente disatteso, quasi del tutto. Meglio lasciare che sia sempre quel chilometro avanti alla ruota a decidere il da farsi. A la prochaine!

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

On y va! Dunque, è l’ora. Monto in sella all’Honda alle 07:30 del 26 agosto. Torno in Francia, questa volta nel cuore della Borgogna o un po’ più in là. Vado nei pressi diTreigny. Là, da vent’anni a questa parte, si costruisce lechâteau de Guédelon, un “autentico” castello del XIII secolo, una sorta di ardita scommessa di archeologia costruttiva sperimentale. Ogni tecnica e materiale, ogni strumento utilizzato rispecchia fedelmente ciò che poteva essere nel corso della nascita di un castello nel Medioevo. Magnifica avventura!
Ma sono appena partito da Torino… La strada è lunga: verso il Frejus e poi Lione, quindi Macon e più ancora a nord ovest. In totale circa 700 km. Conto di arrivare in serata a Bléneau dove ho riservato un stanza in un alberghetto dal quale poi raggiungere il castello di Guédelon in una mezz’ora di strada. I primi 100 km fino al Frejus volano via in un attimo. Attraversata la galleria, rigorosamente a 70 all’ora come prescritto, si va in Savoia. Il traffico è regolare nonostante i rientri dei francesi dalle grandes vacances. Diventerà più intenso e noioso intorno a Lione. Il caldo, però, non lo avevo previsto così terribilmente feroce. Lungo la A6 si susseguono cartelli che allertano per possibili colpi di calore e invitano a una continua reidratazione. Siamo ben oltre i 36-38° segnalati dal meteo. Mi fermo spesso per liberarmi del casco e della giacca da moto. Bevo molta acqua e integratori. Noto che anche le grandi pale eoliche, che si incontrano a tratti, sono surrealisticamente immobili.
Lasciata l’autostrada mi faccio guidare dal gps del telefonino. Oops! E’ bloccato. Scotta. Che sia morto? No, per fortuna è solo surriscaldato. Non ce la fa con quel caldo. Una nuova scusa per fermarmi a fumare un’altra sigaretta e allontanare la canicola per qualche istante. La sentiamo tutti, io e il cellulare, e anche la moto può respirare. Finalmente arriviamo a Bléneau. Le strade provinciali sono deliziose in questa parte di Francia. Tagliano foreste di alberi di alto fusto. Saliscendi dolcissimi tra basse colline di verdi variegati che si aprono agli improvvisi fragorosi gialli dei campi al sole. Chissà se Van Gogh è passato anche di qui. Spero per lui che non facesse tutto questo caldo…
Riassaporo la gioia delle due ruote. Respiro e gioisco al saluto degli alberi che sfilano al mio passaggio. Rare le auto che incrocio.
Ed eccomi, il mattino seguente, all’ingresso del castello di Guédelon. All’apertura (ore10:00) il grande parcheggio è già colmo di auto. Più tardi arriveranno anche alcuni pullman. Ho già il biglietto d’ingresso, acquistato su internet. Costa 12 euro online. Viceversa costerebbe 14. Noto, con un certo disappunto, che non ci sono mappe in italiano. Chissà perché, dal momento che sono presenti in inglese, tedesco e olandese, oltre al francese stesso. Comunque a me non crea problemi. Il castello, ormai in avanzata fase di costruzione, mi aspetta lì davanti.
Nel 1997 Michel Guyot, già proprietario del castello di Saint-Fargeau, decide di dare il via a una fantastica iniziativa. Provare a costruire ex novo un castello del XIII secolo, seguendo i criteri di un’archeologia sperimentale nelle tecniche costruttive dell’epoca, utilizzando esclusivamente materiali autoprodotti in loco con l’utilizzo di utensili e macchinari simili a quelli del tempo. Intorno al castello sono state via via edificate anche le botteghe necessarie. Si possono vedere all’opera i carpentieri, i tintori, il fabbro, il cordaro, i tagliapietre, i fabbricatori di mattoni e così via, creando l’illusione di un tuffo nel passato. Proseguendo la visita tra le varie cabanes degli artigiani mi dirigo verso un largo sentiero nella foresta e, costeggiando le rive del laghetto che fornisce tutta l’acqua necessaria, arrivo dopo circa 500 metri al mulino, una delle opere più interessanti del sito. Il mugnaio mi spiega che è stato costruito seguendo fedelmente gli indirizzi e i suggerimenti degli storici e degli archeologi che hanno collaborato attivamente in varie fasi e che gli unici attrezzi utilizzati sono stati l’ascia e il coltello. Una volta aperta la chiusa, l’acqua corrente mette in moto un meccanismo pressoché automatico, incredibile se si considera che veniva utilizzato già nell’anno Mille. A questa e altre meraviglie possono partecipare le scolaresche. Uno degli intenti del sito è anche quello didattico, non solo, ci si può offrire come volontari e partecipare per un tempo limitato alle fasi di costruzione dell’opera che secondo le stime dovrebbe essere ultimata nel 2023.
A tutt’oggi Guédelon richiama oltre 300.000 visitatori l’anno. Che dire poi dell’interno del castello. I pavimenti sono stati composti con i mattoni di argilla cotti nel forno legno poco distante dalla roccaforte. Le decorazioni delle pareti sono state create con le terre di ocra fatte dagli artigiani. La volta del salone principale è uno spettacolo di travi a incastro dove non è utilizzato neppure un chiodo in ferro! I minuti corrono veloci. Lo stupore si rinnova a ogni passo.
Mangio un panino al self service e mi delizio con una birra. Evito il ristorante medievale, già troppo affollato per i miei gusti. Acquisto qualche souvenir di produzione Guédelon alla boutique. Sono trascorse più di quattro ore da quando sono arrivato. Il caldo è terribilmente afoso. E’ ora di ripartire.
Rimonto in sella e dopo aver tracciato un itinerario di massima mi dirigo verso Nevers. Non corro. Non ho fretta. Mi sazio del cielo e… di un altro caffè e un mezzo litro di acqua gelata durante una sosta nell’unico bar di in un paesino dalle strade ordinate e pulitissime. La vita pare sciogliersi in un ritmo rallentato e sereno.
Arrivo a Nevers. Cerco una camera per la notte. Già domani si torna a casa. Altri obblighi richiedono il mio rientro. Prima o poi ripartirò all’inseguimento di quel chilometro sempre oltre, più avanti alle mie due ruote.

Dario Arpaio

delta-del-po-in-moto17 agosto 2013. A quest’ora avrei dovuto essere a Cadaques, Spagna. Il fato, al contrario, ha voluto che scegliessi di andare nellaprovincia di Rovigo, per meglio dire nel mezzo deldelta del grande padre fiume Po. Tra Dalì e il Po, ho dovuto optare per quest’ultimo e a questo punto non me ne pento. Verrà il tempo di potere rendere visita anche ai luoghi dove ha vissuto il grande maestro del surrealismo. In effetti ho sempre desiderato anche andare a vedere dove l’acqua dolce si fonde con quella salata, il luogo dove il grande fiume muore e rinasce mare.

La partenza è avvenuta sotto i migliori auspici di tempo buono, più che buono. Soprattutto con lo spirito giusto, genuinamente rivolto al viaggio, all’avventura dell’anima. Percorsa per intero sul mio Burgman l’autostrada da Torino a Piacenza, ho poi imboccato quella in direzione Brescia, uscendo a Cremona. Da lì è iniziata un’assolata strada statale, attraversando prima la provincia di Mantova e poi quella di Ferrara, per raggiungere la via Romea per la successiva deviazione verso Tolle, frazione di Porto Tolle.

Le strade da Cremona in poi sono disseminate di autovelox e il buon senso mi ha suggerito di non superare gli strazianti limiti consentiti. Questa accortezza obbligata ha giovato al gusto della passeggiata turistica, permettendomi di vivere diversamente il paesaggio che, altrimenti, sarebbe volato via lasciando solo vaghe immagini nella memoria. Un gran caldo ha tormentato il percorso fino a che ho detto basta! Ci vuole una pausa! Ho già bevuto due litri d’acqua e tre caffè, adesso ho fame! Attraverso un paesotto deserto nel mezzo di niente, Torriana, una frazione di Serravalle a Po e qui mi fermo in una delle rare osterie aperte in zona.

Il fresco all’interno mi rinfranca. Ci sono solo io. Vengo servito da una giovane molto gentile. Devo mangiare poco, la strada è ancora lunga… Scelgo un piatto di spaghetti al pomodoro fresco, freschissimo e saporito – eccellente idea! Immancabile la birra, l’acqua e un caffè, che bevo seduto all’esterno per fumare. Che caldo! Vabbè si riparte! Il senso del viaggio, il gusto della strada in moto, è più forte di qualsiasi disagio. Stare nel vento apparente, prodotto dalla guida sulle due ruote, unito alla visione di un qualunque panorama ripagano e alimentano quel desiderio che non ha fine. Un volo in libertà. Soli è anche meglio. Rousseau scriveva: “…ridotto a me solo, mi nutro della mia stessa sostanza che tuttavia non si esaurisce…” (Fantasticherie del passeggiatore solitario).

pescatori-dell-isola-del-polesineFinalmente raggiungo la statale Romea. È supertrafficata. Vado in direzione Venezia e imbocco la deviazione per Porto Tolle. Dopo quasi otto ore dalla partenza da Torino (!) arrivo al piccolo hotel Bussana che ho prenotato il giorno prima per telefono. Fino a Tolle è stato il caldo a farla da padrone. Non ho potuto fare a meno di riporre per un paio d’ore la giacca leggera nel bauletto del Burgman. Il sole a picco mi ha rosolato le braccia.

La stanza al primo e unico piano è decorosamente confortevole. Il Burgman è ben parcheggiato nello spiazzo interno. Scoprirò più tardi che la cucina dell’hotel è eccellente – al punto di dover ammettere di non avere mai mangiato delle vongole così gustose e soprattutto freschissime. Stefano, il giovane titolare del Bussana, mi ha offerto già dal mio arrivo tutta la sua simpatia e soprattutto tante informazioni sul come e dove meglio andare alla scoperta delle isole del delta. Mi spiega come iniziare il giro dell’isola Polesine Camerini per poi raggiungere Pila, nell’isola di Ca’ Venier, da dove posso fare un giro in barca della durata di un paio d’ore intorno agli isolotti più esterni. Fico! Non vedo l’ora!

Mi suggerisce anche di non mancare l’attraversamento dell’isola della Donzella che si affaccia sulla Sacca degli Scardovari. Lì sono disseminate le colture di mitili e vongole, tanto famose da venire esportate all’estero. Intanto, a sera, mi rilasso con una lunga doccia, una birra e un giretto a piedi prima di cena. L’appuntamento con la tavola del Bussana si rivela una piacevolissima sorpresa: ricco antipasto di cozze e vongole in guazzetto, poi immancabili spaghetti alle vongole – da non perdere! – e infine un croccante fritto misto con verdure in tempura. Il tutto accompagnato da mezzo litro di prosecco.

abbazia-di-pomposaFaccio una breve passeggiata fumando e gustando gli ultimi raggi di un sole ballerino tra poche nuvole di passaggio.
Torno in camera. È fresca al punto giusto. Adoro le camere d’albergo quando sanno offrire un buon equilibrio tra intimità e comfort. Nel mio immaginario si trasformano in gusci dove adagiarsi, distanti da tutto, facendo magari il punto del viaggio in corso, preparando la tappa successiva. Assumono il senso di un’oasi nel deserto della vita ordinaria, quella che snocciola giorni tutti ugualmente stressanti e monotoni, sperperati nell’impegno di vivere nel proprio tempo appena parcheggiati, anonimi. Ed ecco che le due ruote figurano l’esatto contrario. Si viaggia liberi, sciolti. Ci si avvicina al prossimo senza altro impegno che non sia il confronto semplice di esseri umani con altri esseri umani che si propongono in genere con maggiore schiettezza e disponibilità, perché, come dice il mio amico Italo Barazzutti, gran viaggiatore, chi va in moto da solo viene accolto come diversamente non succederebbe mai, ovunque e comunque. È l’altro che si avvicina a te e se ti offri come sei, in modo schietto, senza pregiudizi, puoi interpretare la tua umanità in una immediatezza che va scomparendo nei rapporti tra simili e dissimili, sfilacciati come sono dalla fretta di vivere per sopravvivere o, peggio, solo per arricchire.

È mattino. Vado a rendere omaggio al grande padre fiume. Seguo le indicazioni di Stefano. Raggiungo il ponte che porta all’isola Polesine Camerini. Percorro una delle tante stradine che costeggiano gli argini. Sono su uno dei rami del delta e il fiume mi accoglie in tutta la sua placida maestosità. Sono estasiato. Il Burgman segue docile la mia guida. Vado a passo lento. Siamo soli io e lui. Ci godiamo ogni metro. Mi fermo per scattare qualche foto ai pochi pescatori. Ciascuno di loro sceglie il posto più consono al proprio stile di pesca. Piazzano l’ombrellone. Hanno con sé un frigo portatile e una seggiolina. Osservano vigili la punta della canna, pronti a cogliere ogni minimo sobbalzo della lenza. Silenzio. Qualche alito di vento muove appena il fogliame d’intorno. Si respira la quiete solenne di movimenti e gesti antichi. Il fiume scorre portando con sé la memoria del tempo. L’acqua conserva tutto ciò che è stato. Conosce ciò che sarà. È sempre uguale la vita, come un battito d’ali costante nel movimento regolare che porta altrove. Se non si pone un limite, l’universo vive in noi con tutti coloro che sono stati e che saranno. Altro non esiste.

Circumnavigo – si fa per dire – l’isolotto. Mi sazio dei sussurri del fiume. Torno al ponte. Abbandono il ramo del Po di Tolle e vado verso quello di Venezia. Devo raggiungere Ca’ Venier e Ca’ Zuliani per arrivare a Pila che si affaccia sulla Laguna Barbamarco, là dov’è il centro dei pescatori e la barca che mi porterà sulle isolette. Ho in mente i loro nomi: Burcio, Isola della Batteria, con il faro in punta, Scano Boa, Busa di Dritta. Spero di riuscire a scattare qualche buona foto. Il porticciolo però è deserto. Le barche da pesca sono immobili nei loro ormeggi. Non c’è anima viva! Avrò sbagliato strada? Dove sarà l’imbarcadero? Trovo un baruccio aperto. C’è solo una giovane a servire. Chiedo, domando. Sono quasi le due del pomeriggio e lei sta per chiudere. Mi spiega che apre alle cinque del mattino quando i pescatori arrivano a consumare. Ha un figlio piccolo. Mi dà anche il biglietto da visita del proprietario della barca che fa il giro turistico. Lo chiamo al cellulare, non risponde. Cavolo! La giovane purtroppo non sa darmi maggiori indicazioni. È stata gentile. Probabilmente ho sbagliato io in qualche dettaglio sul come dove quando. Mi rassegno a mangiare un toast e bere una birra. Inaspettato mi richiama il barcaiolo e mi spiega che non uscirà a fare il giro che mi ero prefissato. Ha troppi bagnanti da accudire. D’altra parte è domenica. Sono seccato per questo contrattempo. Mi dirigo altrove.

capanni-di-allevatori-di-mitiliPercorro nuovamente la provinciale per Tolle e mi dirigo a Scardovari dove faccio una breve sosta per il gran caldo e per fare il punto della situazione.

Anticipo i tempi previsti dal mio programma di viaggio e decido per il giro della costa intorno alla Sacca degli Scardovari che separa il ramo del Po di Tolle da quello del Po di Gnocca.

Ho preso confidenza con il paesaggio. Mi sono completamente immedesimato con le solitarie stradine che costeggiano gli argini con il loro assolato silenzio. Il tachimetro segna 40-45 orari. Il Burgman risponde docile al passeggio. Mi tolgo il casco, è diventato insopportabile. Bevo un po’ d’acqua dalla bottiglietta ormai calda. Qualche uccello vola via disturbato dal motore del Burgman. Mi sento quasi un intruso. Riesco a malapena a fotografare uno svasso e poi un airone. Non un granché come risultato.

Ed ecco che alla mia vista si offrono le coltivazioni di mitili e di vongole. Non avrei immaginato che fossero così estese. Si perdono fino all’orizzonte, che in questo delta pare sempre irraggiungibile. Arrivo alla spiaggia affollata dellaBarricata. Per un attimo medito di fare una nuotata anch’io, ma i bagnanti della domenica sono davvero troppi. Proseguo lento.

Rientro in hotel. Incontro lo chef e concordo con lui per un branzino fresco alla griglia. La cena è ottima come la precedente. Una doccia ristoratrice e poi un’altra birretta. Nel fresco della camera decido di rivedere sul mio smartphone il film Easy Rider del ’69. Peter Fonda e Dennis Hopper sui loro chopper hanno segnato un’epoca con il loro mitico film a bassissimo costo. Era la fine degli anni ’60, il tramonto degli hippies. La colonna sonora è fantastica con i pezzi indimenticabili degli Steppenwolf, Jimi Endrix, Bob Dylan, dei Byrds e la ballata di Roger McGuinn. Vado indietro nel tempo. Mi ritrovo davanti vecchi sogni e volti che non vedrò più. Un attimo di malinconia ci può anche stare.

Il mattino dopo lascio l’hotel Bussana. Ho pensato di non rientrare attraversando le statali. Basta con i 70 all’ora. Quindi percorrerò la Romea fino a Ravenna per imboccare l’autostrada per Bologna. Faccio tappa alla splendida Abbazia diPomposa, quasi d’obbligo data la bellezza di questa chiesa che risale all’anno Mille. È lunedì e scopro che l’ingresso è gratuito ed è giorno di chiusura al pubblico del museo antistante. Sono l’unico visitatore al momento.

abbazia-di-pomposa-internoLa chiesa è tutta per me con i suoi affreschi dei pittori della scuola di Giotto. Vorrei scattare qualche foto ma vengo redarguito e seguito passo passo dal custode che vieta ogni scatto, anche se con macchine prive dell’uso del flash. D’altra parte non esiste nemmeno il modo di acquistare qualche cartolina ricordo o altro che illustri le bellezze dei dipinti. Il custode va a sistemare le candele votive e io, nascosto dietro una colonna o un’altra scatto al volo qualche foto.

Terminata la visita mi dirigo verso Comacchio, dove ho già avuto modo di soggiornare tempo addietro. Salgo i gradini dei Trepponti girovagando pigro tra i canaletti e poi senza indugio vado a salutare Ghibo, titolare del ristorante Il Cantinon, che ho conosciuto in passato. Tra l’altro è anche un collezionista d’arte. Rammento ancora la sua piccola casa colma di opere accatastate dappertutto. Purtroppo non c’è. Ci salutiamo per telefono. Faccio una passeggiata tra i canali e dopo essere ritornato al Cantinon per un pasto veloce mi dirigo sulla statale verso Ravenna.

Da lì in poi è solo autostrada con qualche sosta negli autogrill assediati da festosi turisti, si fa per dire. Il traffico è intenso ma scorrevole. Incrocio tanti biker, soli o in coppia, specialmente stranieri. È un bel modo di viaggiare, molto diverso e più intenso.

Al solito, come in altri rientri, incappo immancabilmente in un temporale, questa volta dopo Piacenza. Sosta obbligata sotto un cavalcavia per indossare l’antipioggia e via così verso Torino.

La pioggia cessa. Altra sosta in un autogrill per togliere l’antipioggia. Gli incontri non sono rari lungo la via e mi fermo a chiacchierare con altri viaggiatori su due ruote. C’è un senso di appartenenza a qualcosa che accomuna, quale che sia il mezzo, escludendo lo snobismo di qualche fanatico per questo o quel modello di moto. Viceversa ci si scambia opinioni, pareri, esperienze, sogni.

Arrivo a Torino senza altro intoppo. Riparo il Burgman nel box. Ho il magone ma sono già pronto per un’altra avventura, non so per dove né quando, ma so che l’importante è e sarà partire e ripartire ancora.

Dario Arpaio

il-burgman-650-mio-compagno-di-viaggioDomenica 21 agosto 2011: partenza da Torino. Il tempo è quello del viaggio e della scoperta e che gli dèi mi accompagnino. Ho un itinerario di massima: visita alla casa di Monet a Giverny, 75 chilometri a nordovest di Parigi, poi rotta verso i luoghi del D-Day, condizioni meteo delle Normandia permettendo.

La strada da Torino si arrampica verso il Frejus. Poco traffico. Anche nella mente. Due ruote è sensazione di libertà tale che poche altre occasioni permettono di sperimentare. Sono solo con me stesso e il Burgman. Guido dentro i miei pensieri. Mi avvolgo nel vento.

Poi, ecco il tunnel. E’ un buio lungo e crea un certo turbamento. Man mano che i chilometri si susseguono, aumenta il calore, cresce il disagio. Mi fa sentire un intruso nel cuore di pietra del Signore della Montagna.

Appena fuori tutto si fa più leggero con la discesa.

Qualche saluto volante mi arriva dai pochi biker che si incrociano lungo un’autostrada, fortunatamente, quasi deserta. Quel cenno della mano sinistra, semplice e beneaugurante, mi procura sempre una certa emozione. Come riconoscersi tra uguali, in una dimensione diversa: siano essi gli ‘uccelli d’altura’ cari a Bernard Moitessier, o i cosiddetti duri ‘onepercenters’ (quelli puri almeno). Comunque liberi. Non chiusi nelle auto, ma pellegrini del vento. Caldo o freddo, pioggia o altro, diversi nel modo di viaggiare, di sentire la strada, a ogni sobbalzo, dalle ruote alle mani, sotto il cielo, che è tutto nostro.

Verso Lione il traffico aumenta e, in modo esponenziale, anche il caldo, che si fa soffocante. Cavolo! Non ho considerato che una domenica di fine agosto è tempo di rientro dalle ‘grandes vacances’. Le aree di sosta sono prese d’assalto. Non c’è posto all’ombra. I ragazzini strepitano. I genitori anche. Ma in quanti siamo! A ogni svincolo di una certa importanza si formano lunghe code. Le passo a filo della corsia d’emergenza, a 30-40 all’ora, cautamente, ma le passo. Il caldo aumenta. Ma quanti gradi saranno mai! Non oso leggerli sul cruscotto del Burgman. Chissenefrega.

Alla fine della giornata ho calcolato di avere bevuto 2 litri d’acqua e 1 litro di Gatorade.
Màcino chilometri, ma la media rimane molto bassa, il che scombina il piano di viaggio. Maledetto caldo. Solo il Burgman non mostra segni di sofferenza. Non credo di farcela ad arrivare a Giverny nella grande tappa di 842 km che avevo previsto in partenza. Il caldo e il traffico mi stanno sfiancando. Allora, per non pensarci, mi adagio in qualche ricordo. La moto ti fa sentire tutto tuo.

Un’occhiata alla cartina e decido di fermarmi a Auxerre, dopo circa 620 km. Pernotterò da qualche parte e il mattino dopo di nuovo in sella per una visita lampo da Monet a Giverny e poi rotta verso le spiagge dello sbarco in Normandia. Sembra una soluzione discreta. Nonostante tutto mi sento bene, libero, stanco, ma ricco in spirito se non proprio nel corpo. La moto può risultare anche una buona medicina.

Auxerre è deserta. Non un cane per le strade. Mi dirigo verso il centro alla ricerca di un albergo per la notte. Seguo qualche indicazione per gli hotel. Giro e rigiro. Cavolo, ci sono già passato di qui… Ma dove diavolo sono finiti gli alberghi. Sembra uno scherzo. Il Signore dei Viaggi si prende gioco di me? Seguo i cartelli che poi sembrano non portare da nessuna parte. Finalmente ne trovo uno di hotel, ma del tutto casualmente. Un segno che il viaggio prende sempre corpo da sé, non occorrono grandi programmi.

hotel-des-marechauxL’albergo non è sul fiume, dove sono passato poco prima, ammirandone la quiete, ma è poco fuori dal centro. Non importa. Adesso desidero solo una doccia e una buona birra.
Hotel des Marechaux, un piccolo tre stelle, una ben riuscita trasformazione di casa patrizia. Speriamo ci sia una stanza libera, il parcheggio interno mi sembra al completo. Una signora pienotta e molto gentile mi accoglie alla reception e con un gran sorriso mi offre così la certezza di una magnifica e fresca notte. Evviva, la camera c’è. E’ bella. Arredata stile impero, come tutto l’hotel. Ogni stanza è contrassegnata con il nome di un maresciallo di Francia. La mia è intitolata a un certo Kellerman, con tanto di ritratto e biografia. Quest’uomo ha attraversato la Storia, dalla rivoluzione a Bonaparte. La camera ha una finestra sul giardino. Non mi sembra vera così tanta pace dopo l’inferno dell’autostrada.
Scendo a scattare qualche foto alle innumerevoli stampe che tappezzano i muri, ovunque, dalla reception alla sala bar, lungo i corridoi, e in una confortevole sala musica con camino e pianoforte a muro. C’è anche una piscina, ma sono troppo stanco e anche affamato per pensare di andare a tuffarmi.

Le signorine della reception mi indicano un bistrot. Lo raggiungo a piedi, attraversando il silenzio di strade vuote. Scatto foto qua e là alle belle case conservate nello stile delle facciate con le travi a vista.

Appena arrivato al pub ordino una prima bière blanche. Wow! Mi sento re padrone della mia libertà. Festeggio nel mio cuore, anche se, forse, riempio un po’ troppo il mio stomaco…
La sera è fresca. Rientrato in stanza, il sonno tarda (ho davvero mangiato troppo). I pensieri si sparpagliano e mi gusto i colori della notte attraverso la finestra aperta sul silenzio.
Al risveglio gran colazione in giardino. All’improvviso vedo uno scoiattolo arrampicarsi lungo il tronco di un albero davanti a me. Corro a prendermi la macchina fotografica in camera.
Mi scapicollo in giardino, ma non c’è verso. Lo scoiattolo è sparito, o meglio, non si fa vedere da me. Ne approfitto per godermi i magnifici alberi che, fitti fitti, sembrano i veri custodi della storia della casa.

E’ tempo di ripartire. Carico le borse sul Burgman e via di nuovo in autostrada verso Giverny. Percorrere la tangenziale di Parigi, alla ricerca dell’uscita giusta, non sarà cosa semplice. D’altra parte è solo un piccolo borgo che vive per la casa di Monet e non sempre è segnato sulle carte a mia disposizione. Ho portato con me il navigatore. Un po’ controvoglia, ma ne approfitto.

Il traffico è molto più scorrevole, anche se circolano i mezzi pesanti. Al Burgman non danno noia. Li sorpasso senza risentire di vibrazioni o sbandamenti. Vivo la strada senza altri pensieri.

A Parigi devo uscire dal boulevard pèriferique per fare il pieno. Sbaglio l’uscita e poi anche l’entrata. Che idiota! Però non sono poi così tanti i distributori e quindi è anche facile sbagliarsi nel traffico parigino. Vabbè…

casette-di-auxerreAppena fuori Parigi vedo addensarsi nuvoloni neri neri. Occorre una sosta rapida per vestire l’antipioggia. Questa volta ci siamo, il Signore delle Tempeste mi ha trovato. Ci incontriamo poco più avanti. Il temporale è più che violento lungo tutti i 70 km circa che mi separano da Giverny, accidenti a lui. La visibilità è scarsissima. L’acqua spesso allaga la carreggiata formando delle larghe pozzangherone e non riesco a leggere bene sul navigatore la via da prendere. Attraverso un paesotto dopo l’altro senza capire bene se sto andando nella direzione giusta. Intanto tempesta sul mio casco a più non posso. I guanti sono marci. Nonostante l’abbigliamento, l’acqua mi penetra lungo il collo. Cavolo! Bastava un po’ meno… Guido con la massima attenzione. In certi punti devo quasi guadare la strada.

Finalmente ecco Giverny, circa 500 abitanti, quattro casette, e l’indicazione per la casa museo di Monet. Speriamo di trovare un alberghetto, sono fradicio.

Se il dio delle tempeste mi insegue, quello dei viaggiatori mi sostiene. Trovo un due stelle, l’unico. Evviva! All’ingresso, dei turisti mi guardano un po’ sorpresi alla vista improvvisa di questo omaccione che gronda acqua. La padrona mi offre una piccola camera e la possibilità di parcheggio custodito. Meglio di così non poteva andare. Scarico il Burgman. Porto in camera le borse su per una scala stretta. Non c’è ascensore. Ridiscendo subito a sistemare la moto. Accidenti al parcheggio: è in terra battuta ricoperta di breccioline ed è pure in pendenza. E’ davvero una gran faticaccia spostare il bestione alla ricerca del giusto assetto, e senza cadere.

Mi sono anche dimenticato di telefonare a casa. Scopro con grande disappunto che il cellulare ha preso acqua. E’ inutilizzabile. Lo smonto. Tolgo la batteria, la passo sotto il phon, ma niente da fare. Vabbè, userò il telefono della camera. Cavolo, non funziona! La padrona non mi permette di usare il suo. Un attimo di panico. Sono isolato e soprattutto a casa chissà cosa staranno pensando senza mie notizie. Non posso farci nulla. Quella megera non mi lascia usare il suo telefono e a Giverny non ci sono altre possibilità. Andrò a cercare un telefono pubblico appena possibile. Quindi?… La cosa giusta da fare è una bella doccia calda e poi una bistecca e patatine, anche se è già pomeriggio.

La pioggia cessa. Le nuvole si diradano. Il cielo si apre e dà respiro a un pallido sole.
Posso gustare in pieno la meraviglia della visita alla casa museo di Claude Monet, dove ha vissuto per più di 40 anni, fino al giorno della morte, creando le sue opere tra le più conosciute.

Tra l’altro riesco a telefonare da un telefono a gettoni del museo. Meno male. Assaporo il momento della visita più che tranquillo. Ci sono molti turisti, tutti molto educati, scivolano tra le stanze, silenziosi e ammirati. Ci si incrocia senza intralcio. Un’inserviente invece continua a seguirmi per impedirmi di fotografare. Pas de photos, pas de photos! Ma che male faccio? D’altra parte non adopero il flash, quindi? Niente da fare. Non mi molla. A questo punto mi ci metto di impegno e, appena posso, fotografo lo stesso, per dispetto. Il risultato sarà anche discreto.

tramonto-a-giverny-dopo-la-pioggiaIl giardino di Monet è una sinfonia di colori. Mi cattura gli occhi e il cuore. Difficile descrivere l’andirivieni di emozioni di fronte a tutte quelle varietà di piante e fiori mai visti, almeno da me che non me ne intendo molto. Cammino per i piccoli sentieri che certamente anche il maestro ha percorso. Entro, letteralmente, nei suoi quadri. Mi viene in mente un episodio di Sogni di Akira Kurosawa, quando un ragazzo entra nei quadri di Van Gogh e lo incontra. Ricordo, era Martin Scorsese a interpretare Van Gogh. Per me, quì ed ora, non è proprio la stessa dimensione onirica, anche perché fotografo, fotografo tutto il colore che vedo.

Attraverso il sottopasso che porta allo stagno delle ninfee ed ecco mi affaccio su di un’altra intensa emozione. Mi sento rinfrancato e ripagato di tutta la fatica. Come posso ringraziare per così tanta bellezza?

Acquisto qualche souvenir e rientro in albergo. Ceno e poi una passeggiata per approfittare di qualche scatto ancora a un tramonto dai forti contrasti.

Durante la notte di nuovo pioggia e vento. Spero che la moto non cada. Il terreno era davvero molle. Il rumore dell’acqua sul tetto si fa man mano più dolce. La stanchezza prende il sopravvento.

Decido comunque di cambiare programma, niente Normandia, inutile prendere altra pioggia e altri rischi. Si torna indietro. Studio un percorso sulle statali che mi riporti fino a Auxerre. Basta autostrada, sennò che viaggio è?

la-casa-di-claude-monet-a-giverny1

Ed eccomi di nuovo in sella al mattino. Smuovere il Burgman dal fango ha richiesto tutta la mia energia e attenzione. I suoi 300 e più chili mi hanno sfiancato ancora prima di partire.
La strada è piacevole. Non piove più! Ogni tanto penso al cellulare foutu, ma non posso farci molto, ormai. Mi fermo per un pieno di benzina e provo a entrare in un piccolo centro commerciale. Neanche a farlo apposta c’è un negozio di telefonia. Spero. Chiedo aiuto, ma l’unica possibilità è acquistare un telefonino da 50 euro che possa leggere la mia scheda. Meglio di niente. Rifletto sul come sia strano sentirsi isolati (perché poi?). Siamo così subordinati a queste macchinette che spegnamo l’ascolto e il cuore, il sentimento, tutto a vantaggio di cosa? Non saprei. Tant’è.

colori-nel-giardino-di-monetCorro corro lungo le statali, sempre attento agli autovelox. Ce ne sono davvero tanti, fortunatamente ben segnalati. Mi perdo in questa campagna. Poi all’improvviso si alza un vento davvero impetuoso. Mi sbatacchia la testa da destra a sinistra. Riduco la velocità. Mi trovo spesso a guidare con la moto inclinata. Uffa! Non si può mai stare del tutto tranquilli a godersi il viaggio, ma forse il bello sta proprio in questo, nell’affrontare ciò che viene, quando e come si presenta. E’ lo spirito del viaggio, in sé e per sé. Il turismo è altra cosa. Questo penso, mentre mi fumo una sigaretta tenendo la moto ferma il più possibile sotto le raffiche di un vento davvero impietoso. C’è da dire, a suo merito, che ha cacciato la nuvolaglia nera che mi ha perseguitato il giorno prima. Bene così.

Arrivo a Orléans. Vado in centro, proprio dov’è la statua della pulzella, in Place du Martroi.

Diamine, che idea chiamarla piazza del martirio. Alla base della statua equestre, tutt’intorno, c’è in bella mostra anche un bassorilievo con il racconto del martirio nel dettaglio. Ma allora è una mania! Vado a mangiare un boccone. No! Anche il caffè in piazza si chiama ‘del martirio’. Ma insomma basta! Lasciatela riposare in pace.

la-cattedrale-di-orleansQuattro passi, due foto – la cattedrale di Orléans è imperdibile – e via. Si torna a Auxerre. Il vento è cessato. Rimane la smania di andare, di partire, di arrivare non so dove e ripartire anche.

Stavolta mi fermo lungo il fiume. Vedo ormeggiati degli house boat. Sarebbe bello un giorno risalire la corrente dei fiumi di Francia su questi barconi.

Il mattino dopo si torna a casa.

Mi sveglio e piove. Antipioggia e via. Piove e poi smette. Ricomincia il caldo non appena cessa la pioggia. Afa. Mi fermo e tolgo l’antipioggia. Respiro. Oh no, ricomincia a piovere forte. I guanti sono marci. In un autogrill compro dei guanti da lavoro e una commessa gentile mi offre anche dei sottoguanti in lattice. Che meraviglia, ho finalmente le mani asciutte. Vado avanti. Sono indolenzito un po’ dappertutto. Ho male alle mani e al fondoschiena. Mi fermo spesso. Fumo. Bevo caffè. Alle mie spalle di nuovo i nuvoloni. Via di corsa. Altra strada. Poi sosta e ancora i nuvoloni. Stavolta non mi freghi, non mi acchiappi più, caro il mio signore delle tempeste. Vado a sud, torno a casa!

Arrivo a Torino che è buio. Ho il magone. Il tempo del viaggio e della scoperta di qualcosa dentro è finito. Almeno per ora.

Dario Arpaio

Dopo aver visitato Bayeux, il mattino del 17 maggio imbocco la nazionale in direzione Cherbourg. Prendo l’uscita che mi porta ad Omaha. In realtà quel nome in codice comprende Vierville, Colleville, Saint Laurent du Mer, La Cambe, Isigny e forse ne dimentico qualcuno. E’ stato il teatro di sbarco più sanguinoso di tutta l’operazione Overlord, tanto da essere stato ribattezzato Bloody Omaha. A Saint Laurent du Mer visito il memoriale. Stesse emozioni provate in quello di Bayeux. Incrocio turisti americani, inglesi, olandesi, ovviamente francesi, australiani, canadesi. Restiamo tutti ugualmente muti davanti alle vetrine che espongono le armi che hanno sparato, le mostrine, le medaglie, le bende, gli strumenti chirurgici.il-cimitero-americano-di-colleville-normandia

Seguo poi la strada per Colleville dov’è il grande Cimitero americano (foto in alto e qui sotto), quello antistante la spiaggia dove il 16° reggimento della I divisione americana, la Big Red One, ha lasciato così tanti caduti. La visita richiede quasi un’ora e mezza, senza percorrere i ripidi sentieri che, volendo seguirli, scendono fino alla spiaggia. Dopo aver camminato lungo i viali curatissimi, la vista si apre quasi all’improvviso sul panorama impressionante delle 9386 croci di marmo bianco. Ci sono sepolti padri e figli, fratelli. E’ presente anche qualche centinaio di croci che riportano la scritta ‘conosciuto solo da Dio’.

Torno al mio Burgman in silenzio. Il sole è caldo, ma provo un senso di freddo. Non visiterò il cimitero tedesco di La Cambe, dove le tombe sono addirittura più di 21000. Pur con tutto il rispetto per i caduti sotto ogni bandiera, è vivo in me il desiderio di allontanare quel senso di groppo in gola. Ho bisogno di un fiato, del respiro dell’Oceano. Me ne vado a Port-en-Bassin, paese di pescatori.

Sul lungomare scelgo a caso il Fleur du Sel, uno dei tanti ristorantini. Ho bisogno di riprendermi, di bere una buona birra e, perché no, di assaggiare le ostriche à la Normande. Sono una gradita sorpresa. Si condiscono con una riduzione a base di mele, sidro, cipolle e si fanno gratinare. Proseguo con un piatto di pesce, detto turbot. Chiedo alla cameriera carina e gentile di che pesce si tratti. Mi risponde che il turbot è il turbot… Scoprirò poi di aver mangiato un trancio di rombo.

accesso-al-cimitero-americano-di-collevillePasseggio pigramente rilassato per le stradine di Port-en-Bessin. Mi lascio catturare dall’alito dell’oceano. Scatto qualche foto cartolina. Mi regalo un braccialettino di cuoio. Chiacchiero con il propietario del negozio di souvenir. Parliamo del più e del meno. Ma ho come un peso dentro. La visita al cimitero americano mi ha davvero impressionato. Decido di rientrare a Bayeux, ma non prima di aver fatto un’altra breve tappa ad Arromanches che si rivela più che interessante. Qui gli inglesi costruirono un gigantesco porto di collegamento con un complesso sistema di ponti di barche per rifornire il teatro delle operazioni direttamente dalle navi alla fonda, con truppe fresche e ogni tipo di mezzi e sostentamenti.

Arrivato in hotel fumo e bevo birra seduto sul prato davanti alla mia camera. Alla mia sinistra vedo la cattedrale con le sue guglie che svettano su tutto. Sul prato di fronte tre mucche pascolano paciosamente. A destra dell’hotel c’è una clinica veterinaria per cavalli. Ogni tanto qualche nitrito si fa sentire. C’è grande pace.

Il giorno seguente, domenica 18 maggio, lo dedico airanger di Pointe du Hoc(foto qui a destra). Lì in 225 aggredirono e scalarono una falesia alta 30 metri al di sopra della quale erano i bunker tedeschi che con i loro cannoni da 155 sparavano sulle navi al largo. Fu un’impresa follemente eroica e coraggiosa. L’area di visita è vasta. Si percorrono i vari sentieri a fianco dei tanti e tanti crateri, risultato dell’intenso bombardamento dal mare, quello che non diede alcun risultato tanto da richiedere il successivo intervento dei rangers americani. La vista dei crateri e l’ingresso ai bunker lasciano un senso di disorientamento al pensiero di ciò che può essere veramente stato in quel giorno durante quell’attacco. Oggi è un grande prato assolato che domina dall’alto le barche intente nella pesca.

Il mio viaggio prosegue nell’omaggio ai paracadutisti della 101° Airborne, quelli lanciatisi sul Cotentin, insieme agli altri dell’82°, dietro le linee nemiche e che finirono sparsi nella notte su di un territorio ben più vasto di quanto fosse stato prefissato. Quelli che calarono anche su Sainte Mère Eglise, dove è il manichino che ricorda lo sfortunato soldato atterrato con il suo paracadute proprio sul campanile della chiesetta e lì rimasto appeso e ferito per tutta la notte prima di essere fatto prigioniero.

A Sainte Mère Eglise c’è il memorial dedicato ai parà: qui, tra gli altri percorsi di visita, si trova anche un’ala di nuovissima costruzione all’interno della quale c’è un C-47 Dakota. Si entra nella stiva dove sono allineati i manichini dei soldati in completo assetto da battaglia in attesa della luce verde. Nella semioscurità si rivive, attraverso audio e video originali, l’emozione del momento del lancio sotto i colpi della contraerea. Nel museo ci sono pure altri diorami di indubbio interesse che fanno rivivere momenti storici. Nulla è stato lasciato al caso e l’attenzione e lo stupore si rinnovano in ogni sala del percorso.

sul-campanile-di-st-marie-eglise-bayeuxAl rientro a Bayeux visito la cattedrale dov’è la campana Therese-Benedicte della quale ho già detto. Ho indosso una maglietta con i colori dell’Australia. Nella sacrestia, dove sono in vendita i souvenir, dietro il banco sta una vecchietta. La saluto porgendole i miei auguri di buon compleanno rendendola semplicemente felice – ne ho sentito casualmente l’accenno da una sua amica. Mentre mi avvio verso l’uscita, mi corre dietro offrendomi una cartolina con l’illustrazione di una delle vetrate della cattedrale. “Sei australiano… vai a vedere quella vetrata… c’è la Vergine che ha protetto i soldati… ci sono anche gli australiani!”.”Ma io sono italiano… non vengo dall’Australia…”.”Non importa… vai lo stesso!”. Vista la dolce insistenza, seguo le indicazioni.

Una piacevole serata di riposo chiude la mia permanenza a Bayeux. Il meteo prevede un peggioramento. Non andrò a Courseulles o altrove. Per il giorno dopo decido una diversione di itinerario con una visita veloce a Mont-Saint-Michel, da dove poi guadagnare quanta più strada possibile per il rientro, evitando la pioggia che in parte prenderò lo stesso.

Al mattino successivo, approfitto di una abbondante colazione con quegli irresistibili croissant e quel pessimo caffè. Imbocco la nazionale per Cherbourg. Devio per Saint Lo e da lì a sudovest verso Mont Saint Michel dove arrivo dopo circa 300 km. L’avvicinamento al monte è piacevole. Attraverso stradine costellate di case indicanti un numero spropositato di camere in affitto e quant’altro vive attorno al famosissimo luogo. Poi la sorpresa… non si può più arrivare a parcheggiare sotto la rocca. Sono in corso i lavori di costruzione di una diga (la marea che un tempo si regolava da sé non esiste più) e sono stati predisposti dei parcheggi molto distanti dai quali accedere al monte con un servizio di navetta che lascia a circa 300 metri dalla rocca. Troppo tempo! Non voglio perdere tutte queste ore. Voglio evitare il brutto tempo che si avverte già nell’aria ed è evidente che occorre almeno un giorno intero per una visita decente, non le poche ore che mi ero prefissato. Boh.. ci tornerò alla prima occasione…

Risalgo in sella e vado in direzione Rennes. Da lì a Le Mans per raggiungere in serata Bourges e passare una notte nello stesso accogliente ed economico hotel Ibis. Il Burgman macina chilometri. Tutto bene a parte un certo indolenzimento del fondoschiena… Manca ancora poco per Bourges. Sarebbe inutile fermarmi ancora per benzina, caffè e sigaretta. Ormai ci siamo quasi… Acc… mi distraggo… perdo l’uscita, la sola e unica per Bourges – ne rammentavo due – e la successiva è Alencon a 90 km?! Come faccio per la benzina… Cavolo che casino! Al contrario ecco l’indicazione per un autogrill dopo 20 km, così almeno posso fare il pieno, poi si vedrà. L’addetta alla cassa mi riaccende il sorriso… a 6 km c’è un’uscita e lì nei pressi un piccolo motel che pare accolga particolarmente volentieri i motards… Sembra fatto apposta per me. Evviva!

pointe-du-hoc-veduta-dalle-scogliereCosì esco a Saint Amand Montrond. Scorgo subito il motel. Avvicinandomi sento anche un buon profumo di cucina… mmmh…
Scopro che, non avendo prenotazione, la stanza per me non c’è. Merde! Sono costretto raggiungere il paesino seguendo le indicazioni che mi vengono gentilmente fornite. Vado a destra, poi a sinistra, poi a destra… ma ‘sto cavolo di hotel dov’è?! Beh seguirò l’istinto. Vado nel centro del paese che è completamente deserto. Non c’è anima viva e nemmeno l’ombra di un alberghetto… No! Non è vero! Vedo una scritta… albergo ristorante la Croix d’Or! un due stelline accese tutte per me! Parcheggio alla buona sul marciapiede. Entro nella casa di due piani un po’ trasandata nell’aspetto. C’è odore di vecchio, ma soprattutto… non c’è nessuno. Hello? Hello? D’un tratto spunta alle mie spalle un’anziana segaligna signora dallo sguardo severo. Ho la sensazione di essere capitato nella favola di Hansel e Gretel. Ma no, che dico! Madame Rolande, questo il nome della donna, è gentilissima e affabile. La stanchezza a volte gioca brutti scherzi. Mi assegna la stanza numero 7 al secondo piano. Mi permette di lasciare il Burgman nel cortiletto interno. Una cameriera ragazzina, non molto sveglia, mi indica le scale. Salgo con il sacco e lo zainetto in spalla. La piccola camera numero 7 ha un nome, si chiama Sabrina. Il suo interno sembra un puzzle… in mezzo c’è un grande letto (meno male). Di fronte a sinistra un piccolo lavandino, dietro il quale spicca una sgargiante tenda viola che separa una improvvisata ma efficiente piccola cabina doccia. A destra della finestra è stato ricavato un bugigattolo con il water. Meno male! Di primo acchito credevo fosse nel corridoio. Sono strafelice! Scendo a cenare con un ottimo filetto e mezzo litro di vino che credo di essermi ben guadagnato, non prima di avere assaggiato degli affumicati di cui vado a dire.

Dopo una buona dormita e una doccia ristoratrice, scendo a fare colazione. Chiacchiero con madame Rolande. Si parla del futuro, di sogni e progetti. Lei sta restaurando parte delle camere e poi vorrebbe mollare tutto a andare lontano… Salgo a prendere il sacco e lo zainetto. Scendo in cortile per caricare il Burgman e la mia attenzione è richiamata da una strana stufa. Madame Rolande mi spiega che è una sua idea per affumicare la carne à la maison artigianalmente e più che efficacemente. Per il filetto di maiale occorrono circa 4-5 ore, mentre quello d’anatra ne sono sufficienti 3-4.

mappa-dello-sbarco-in-normandiaRiparto in direzione Lione e poi verso casa. Oh no! Di nuovo il vento mi sbatacchia senza ritegno. Direi più forte del viaggio di andata. Passo Lione miracolosamente senza sbagliare strada… Sono in Savoia. Mi avvicino al Frejus. Che ventaccio, non molla d’intensità. Oh no! L’autostrada che porta al tunnel è chiusa. Lavori in corso e vento forte lasciano transitare solo i bilici. E così mi ritrovo sulla statale per Modane. Dopo una quindicina di chilometri extra arrivo al tunnel. Lo percorro questa volta apprezzandone il calore interno. Ho le mani indolenzite. Nel versante italiano il vento rimane tale e quale. Mi pervade improvviso un senso di malinconia. Il viaggio, dopo più di 2600 km, è alla fine, per ora…

Dario Arpaio