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ermanno-olmi-torneranno-i-prati-222-201416Quei due colpi di rivoltella sparati a Sarajevo il 28 giugno 1914 furono il prologo a ciò che seguì per 10 milioni di morti tra i soldati e 7 milioni di tra i civili, questi ultimi perloppiù sfiniti dalla malnutrizione. E’ trascorso un secolo da quell’evento e, così come vuole il titolo dell’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, il tempo scolora i fatti e l’erba torna a ricoprire la terra nel suo eterno ciclo di vita. Torneranno i Prati racconta di una notte in un avanposto qualsiasi sull’altopiano di Asiago, a quota 1800 metri, e nulla altro rimarrà di quel gelido inverno del ’17 se non il silenzio. Forse in qualche angolo della memoria ci saranno ancora le stesse immagini di miseri resti di suppellettili, qualche gamella, un tubo di stufa, un coccio, una foto di casa. Ma dei fanti, della loro paura non ci sarà altro che qualche flebile eco. Olmi ci dice che quegli uomini vanno ricordati per il sacrificio, eroico loro malgrado. Assurdo, spesso inutile, ancora di più perché proprio loro erano là dove non sapevano e non volevano, richiamati dagli ordini di alti ufficiali con ai piedi stivali che non avevano mai visto il fango e giocavano alla guerra sulle carte della retorica e nulla conoscevano del dolore della carne. Nella trincea del film rivive lo spunto di pagine non scritte a tavolino dagli storici, ma quelle veraci dei diari e delle lettere alle quali Olmi si è affidato per costruire la sua sceneggiatura, asciutta, essenziale, quasi metafisica, dove i corpi dei soldati si muovono a rilento nel gelo del loro essere sospesi tra la neve e la morte all’improvviso. Il colore della fotografia, curata dal figlio di Olmi, Fabio, trasfigura ogni istante in un bianconero drammatico di rara bellezza. La notte di luna illumina le parole di Quant’è bella a muntagna stanotte e la canzone di quel soldato unisce anche il cuore del nemico nell’applauso mentre una volpe, ignara, non cambia il suo percorso notturno e un larice pare quasi assorto in un silenzio irreale che attende la tragedia. Il cannone tace, almeno per un istante dilatato. Poi verrà la disfatta di Caporetto, ma i soldati del film non lo sanno ancora. Ricevono ordini astrusi ai quali il loro stesso capitano si ribella. Si bestemmia quel Dio che pare avere voltato lo sguardo in una direzione lontana dal fronte di guerra. Olmi si pone con fermezza contro la retorica bellica e la trincea del suo film è emblematica, la stessa ovunque in quel conflitto che significò l’autentico spartiacque nella storia del secolo scorso.Torneranno i prati anche su quell’angolo di non vita, di uno spazio di miseria umana. olmifilm3A Olmi non necessita nemmeno citare i 340.000 processi intentati ai militari per diserzione, per autolesionismo o anche solo sbandamento, indisciplina, né accennare alle atroci esecuzioni sommarie, come quella ordinata dal generale Graziani nei confronti di un vecchio soldato che, al suo passaggio, non si era levato di bocca la pipa. A Olmi basta inquadrare i volti dei soldati con gli sguardi sospesi nel gelo di una notte qualunque nell’attesa vuota dell’irreparabile. Torneranno i prati su quella terra, come ogni anno a primavera, tanto ‘la guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai’, come dice un pastore a Olmi, il quale intorno a quella saggezza e ai ricordi di suo padre, egli stesso soldato sull’Altopiano di Asiago, racconta in poesia rarefatta quello che rimarrà uno dei suoi film migliori in assoluto, una regia raffinata di rara purezza.

Il cinema nel passato ha rivolto grande attenzione alla Grande Guerra. Già nel 1930 Georg Wilhelm Pabst girava Westfront 1918, che si chiudeva sull’immagine di un Cristo in croce, inerme, semidistrutto. Per non dimenticare All’Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone anch’esso del 1930. Nel 1938 Abel Gance giravaJ’Accuse, con i cadaveri dei soldati che si levavavano dalle tombe in atto di accusa. Tanti altri i titoli che andrebbero rivisti. Non ultimo l’indimenticabile La Grande Guerra del 1959 firmato dal maestro Monicelli, o il coraggioso Uomini Contro del 1970 girato dal grande Francesco Rosi, ma nessuno pur nei tanti meriti, ha la forza espressiva della poetica di Torneranno i Prati di Ermanno Olmi.

si-alza-il-vento-l-xkymx1Si Alza il Vento… tant’è, comunque sia, si deve vivere,il faut vivre. Con questa citazione da Paul Valery, il maestro Hayao Miyazaki titola il suo ultimo lungometraggio d’animazione con il quale saluta il suo pubblico in un nostalgico delicato film d’animazione per cedere il passo al tempo dei suoi anni. Superfluo ricordare gli innumerevoli tributi e premi che hanno costellato la sua lunga carriera cinematografica. Illustratore raffinato, regista innovativo, seppure nella tradizione giapponese dei manga e degli anime, è riuscito sempre a incantare la critica e il pubblico. Basti rammentare alcuni tra i titoli dei suoi film più famosi quali Il mio Vicino Totoro (1989), Porco Rosso (1993), La Principessa Mononoke (1997), La Città Incantata (2002), Il Castello Errante di Howl (2004), Ponyo sulla Scogliera (2008). E ora Si Alza il Vento, e, come dice il poeta, si deve pur continuare a vivere, così come c’è da sperare possa essere per Lo Studio Ghibli, fondato da Miyazaki nel 1985 con l’amico Isao Takahata, altro eccelso regista. Lo studio di produzione è ora a rischio di forte cambiamento, ridimensionamento, se non di definitiva chiusura dell’attività connessa con la produzione dei lungometraggi. La concorrenza e la strenua competizione nel settore è tale da richiedere un’attenta pausa di riflessione per chi utilizza perlopiù metodologie antiche.

Si Alza il Vento, contrariamente ai precedenti film di Miyazaki, assai più incentrati sull’aspetto favolistico e visionario, verte sulla biografia di Jiro Horikoshi, l’ingegnere aeronautico che ideò l’innovativo e strepitoso caccia Mitsubishi A6M, lo Zero, che tanta parte ebbe nelle battaglie aeree durante la II Guerra. Eppure Jiro non ama la guerra, è innamorato del volo. Nei suoi sogni incontra ripetutamente il suo idolo, l’italiano Giovanni Battista Caproni, geniale costruttore e fondatore della omonima azienda aeronautica, che fu all’avanguardia agli albori del volo. Miyazaki orchestra finemente sogno e realtà nella vicenda, facendo muovere il suo protagonista attraverso un arco di una ventina d’anni della storia giapponese, altro aspetto inusuale nei suoi film, che si svolgono in genere nell’arco di una durata temporale molto breve.

the-wind-rises-1-657x360Miyazaki illustra pure le miserie del suo popolo di allora e, tra l’altro, le tremende conseguenze del terremoto del Kanto del 1923. Sullo sfondo dell’intera vicenda si vedono muovere le povere popolazioni di un Paese già allo stremo seppure in preda a forti tensioni guerrafondaie, dalle quali il giovane Jiro si sente assai distante, completamente assorbito dal suo sogno di inventore.

Non manca neppure l’aspetto mélò legato allo sfortunato e disperato amore che unisce il giovane ingegnere alla dolce Nahonoko vittima della tubercolosi. Ma le ali non si fermeranno, voleranno sempre più in alto in un anelito di libertà e seppure le tragiche vicende terrene graveranno sugli animi, il sogno di un’aviazione all’avanguardia si realizzerà in pieno, così come recita la vera storia di Jiro Horikoshi.

Miyazaki volge il suo sguardo ammirato e malinconico alle usanze del tempo. Ci mostra le sue figurine circondandole con gesti misurati nella cortesia, densi nel rispetto. Qualcosa che è andato perso a favore di non si sa bene quale vantaggio. Si alza il vento e il cigno dispiega le sue ali e vola accompagnadosi in un ultimo canto, raffinato, elegante, composto come è stata tutta la carriera del grande maestro al quale va il ringraziamento devoto del suo pubblico di piccoli grandi bambini.

Dead Man (’95), Ghost Dog (’99), e l’incantevoleBroken Flowers del 2005, sono alcuni dei titoli che fanno di Jim Jarmusch uno dei cineasti americani indipendenti di maggiore successo di critica e di pubblico. Ogni volta che è sbarcato a Cannes, il plauso si è ripetuto con intensità crescente se non pari a quanto ricevuto in precedenza. Altrettanto è stato per Solo gli Amanti Sopravvivono, accolto intensamente alla presentazione avvenuta a Cannes nel 2013. Jarmusch è artista poliedrico e raffinato regista, sceneggiatore, attore, musicista. Tra l’altro, con la sua band ha eseguito in prima persona alcuni dei brani della colonna sonora del film. E veniamo alla storia proposta dalla sua intrigante sceneggiatura. Solo gli Amanti Sopravvivono e lo possono loro soltanto, oltre ogni mediocrità e bruttura del mondo attuale, così afferma malinconicamente Jarmusch. Per ribadirlo mette in scena l’amore intensamente romantico di due vampiri, intepretati con buona dose di ironia da una splendida Tilda Swinton e da Tom Hiddleston. Sono esteti raffinati, legati al piacere della conoscenza della letteratura più colta, della storia della musica, sulla quale loro stessi hanno pure influito nei secoli di lunga permanenza in questo mondo, dove gli umani sono solo zombie, inutili e dannosi esseri usa e getta. Non sanno né apprendere, né comprendere le meraviglie che la Terra è in grado di offrire. I due, che si chiamano non a caso Eve e Adam, hanno frequentato nel tempo personaggi della levatura Shakespeare e Schubert e chissà quanti altri. Il loro amico di sempre, interpretato da un intenso John Hurt, si schermisce gigioneggiando nel non voler ammettere che Amleto è stato lui stesso a cederlo al grande bardo. Sono i vampiri secondo Jarmusch gli unici esseri in grado di apprezzare la vita nella sua stessa essenza. Loro che vivi non sono.

tumblr_motjnwkooa1qb7ui6o1_500La sequenza iniziale che introduce i due protagonisti è splendida. Sulle note di Funnel of Love la macchina da presa alterna la visione di lui a quella di lei, lontani uno dall’altra, ma sempre intensamente uniti. Lui vive a Detroit, abitando una vecchia dimora trasformata in una buia sala di registrazione, collezionando chitarre elettriche e strumenti musicali di rara bellezza e fattura. I suoi pezzi, languidamente rock, li incide solo con vecchie piastre Revox. Ascolta musica tassativamente in vinile. Come la sua amata si nutre esclusivamente di sangue zero negativo di purissima provenienza. Lei vive a Tangeri in una mistica solitudine, dedita alla costante ricerca della letteratura dalle più svariate provenienze. Anche per lei un sorso di sangue purissimo è l’estasi oltre che la sopravvivenza. Entrambi si guardano bene dall’approfittare di vittime occasionali per il loro nutrimento. Non si sa mai quanto possano essere inquinate dal tenore della vita moderna… A quella stessa realtà vengono però bruscamente richiamati dall’arrivo inatteso e non desiderato della sorella di lei, interpretata da Mia Wasikowska, un po’ punk e tanto fuori di testa. Con la sua presenza possono solo arrivare guai e complicazioni…

Jarmusch racconta la sua storia con sottile ironia, malinconico romantico finissimo sarcasmo, quasi richiamando lo spleen baudeleriano, ma senza affettazione, senza estetismi fuori luogo. Il suo è un dolente richiamo all’amore profondo come unico elisir per una vita davvero vissuta. Il resto è silenzio.

In Ordine di Sparizione è un film decisamente nordico, frutto di una brillante coproduzione norvegese, svedese e danese. E’ ambientato in una fredda monocolore e nevosa Norvegia, magnificamente fotografata da Philip Ogaard, e porta la firma del regista Hans Peter Molland. Lo ricordiamo per Beautiful Country del 2004 con Nick Nolte e Tim Roth, presentato, anch’esso come In Ordine di Sparizione, alla berlinale, dove entrambi i titoli hanno riscosso un più che meritato successo. Se il primo si fondava su di un soggetto drammatico, il nuovo film è una piacevolissima e divertente commedia black, quasi thriller, in odor di Tarantino, con qualche richiamo allo stile dei Cohen, anche in virtù di vaghe similitudini nell’impostazione e nei contenuti di certi dialoghi, assimilabili nella forma a quelli tipici dei registi americani. In Ordine di Sparizionerimane comunque un’opera originalissima del regista norvegese, divertente a tutto tondo, sebbene di morti ammazzati ce ne siano a bizzeffe. Il bravo attore svedese Stellan Skarsgard, che figura anche tra i produttori del film, interpreta il ruolo protagonista di un padre incredulo di fronte alla morte per overdose del figlio che si incaponisce nella ricerca della verità, dando il via a una vendetta senza fine. Lui di mestiere guida giganteschi spazzaneve, ed è un buonuomo di nome Dickman, il che tradotto dall’americano… beh, meglio non scriverlo in fascia protetta…

in_ordine_di_sparizione_08L’uomo, apparentemente sprovveduto, non cederà di un passo nel confronto serrato con due gang di spacciatori, una norvegese, l’altra serba. Le due bande, inizialmente ignare della tenacia di questo padre vendicatore, dovranno vedersela tra di loro e, soprattutto, con la sua devastante quanto ingenua determinazione fino al pirotecnico inevitabile finale. Il film scorre fluido e denso di colpi di scena, non lesinando qualche ironica considerazione del regista su certi atteggiamenti razzisti dei suoi connazionali, oppure divertendosi a tratteggiare rapporti omosessuali tra gangsters e, magari, rozze annotazioni serbe sullo stile di vita locale. Una delle più riuscite sequenze mostra proprio i mafiosi serbi divertirsi sui campi da sci, euforici come bambini. Tutta da gustare la colorita e brillante interpretazione del grande Bruno Ganz nei panni del padrino serbo.

Se è inconfutabile ed evidente che il cinema europeo sia ormai orientato sempre più verso la commedia, va applaudita la prova di Molland e del suo Kraftidioten (chissà come si traduce davvero…), titolo originale più che rappresentativo di questa serie di efferati omicidi In Ordine di Sparizione