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Il respiro del nuovo sole spazza via la cenere della notte. Io me ne sto in piedi, davanti alla finestra, quieto e pigro, fumo lento con la tazza del caffè in mano. Fra poco salirò in macchina alla volta di Arconate, a casa di Fabrizio Jelmini, fotografo, documentarista, reporter.

Mi soffermo a pensare come certi istanti si disperdano nelle stanze buie della memoria e come la vita sia, alla fin fine, uno sperpero di immagini in corsa. Domani, forse, non saremo più capaci di rintracciare i segni della loro comparsa. Una sveglia rotta ha più corpo e sostanza della nostra memoria fiaccata da un presente invadente.

E’ giorno fatto. Sto guidando lungo l’autostrada da Torino per Milano. Quante, quante volte l’ho percorsa, magari nell’ansia per gli incontri che mi davano lavoro. A volte sereno e soddisfatto. Altre me ne andavo con il magone per i segni contrari.

Oggi le montagne sono chiare e forti. Si possono distinguere canaloni e nevai. Un coro rassicurante.

Mi fermo nel solito autogrill. Un caffè e un croissant, come sempre a questo punto, lungo la stessa via. Mentre mi attardo a fumare nel parcheggio, chiamo Fabrizio e lo aggiorno sulla mia posizione. Più in là, un airone si alza in volo, solennemente. Le sue ali lo spingono verso nord. Quanta piccola meraviglia si sprigiona in questo giorno: sorprese in libertà. Quanto sono preziosi i frammenti di vita che poi magari sperperiamo nel mosaico dei giorni, senza quasi mai rendercene conto. Siamo davvero degli attori senza copione, pure distratti un po’.

Devo riprendere la strada. Non voglio tardare oltre. Fabrizio mi aspetta nel suo studio fotografico. Mi figuro nell’atto di entrare nell’antro di uno stregone, alchimista delle scale dei grigi, sapiente artefice di rasoiate di luce. Lo vedo affinare la sua interpretazione dei segni, quelli minimi, indifferenti al senso comune.

Oggi non siamo più capaci di guardare. Il nostro mondo è davvero saturo di immagini. Eppoi tutto va a finire nella memoria, e lì sta. In fondo ciò che vediamo è solo illusione, una proiezione relativizzata della realtà, magari uno scherzo degli dei per offuscare la verità. Quanti sono i fattori che giocano nella percezione visiva? Ma poi… a me importa poco… mi è sufficiente la consapevolezza che ci sono e vedo e penso e magari sogno, e… basta. E adesso sto vivendo dove vanno le ruote della mia auto e se mi portano altrove anche con la mente, ebbene ci gioco. E io ci sto al gioco e mi diverto!

E’ giunto il momento di lasciare l’autostrada. Bene! Manca poco alla meta. Parcheggio agevolmente nella piazzola antistante la casa studio di Fabrizio nel centro di Arconate. Stradine dal sapore antico. Suono il campanello di un grande portone in legno, di quelli che una volta vedevano entrare i carri. Fabrizio mi accoglie a braccia aperte. Percorriamo il vialetto nel mezzo del cortile ed ecco l’antro del mago aprirsi e chiudersi dietro le mie spalle, rivelandomi meraviglie non immaginate in così tanta bellezza di fattura. Il piano terra è dedicato allo studio fotografico ed è così ricco e perfetto in ogni dettaglio. Può anche essere rifugio notturno dopo chissà quale intenso lavoro di preparazione di un servizio o altro. In fondo all’unica grande sala dai muri rossi una scala a chiocciola conduce al piano superiore, all’abitazione di Fabrizio e di sua moglie Monica. Sento l’abbaio di un cane, un cagnone. E’ una femmina, Uma, un bracco italiano, la cocca di Monica. Tenera e dolcissima, un po’ timida: una cagnolona dagli occhi grandi. In fondo allo studio, da un lato, c’è un grande cuscinone tutto per lei. Come si conviene ad una regina.

Ovunque le foto appese, o semplicemente appoggiate ai muri rossi, catturano il mio sguardo. Mi rigiro. I miei occhi scivolano sulle foto che raccontano la storia professionale di Fabrizio, la sua vita. Sono estasiato davanti ai ritratti stampati su tela in grande formato. Sono autentiche esplorazioni nell’intimo delle storie di migranti, come in un backstage delle vite diverse. Grande ammirazione per i più piccoli quadretti, rigorosamente incorniciati con legni di recupero. Fabrizio mi illustra le sue originali creazioni con lecito orgoglio. Traspare in esse il ricordo vivo dell’artigianato del nonno falegname. La storia di generazioni antiche si svela man mano che discorro con lui, fotografo, documentarista, giornalista, esploratore della vita con rara sensibilità. Il padre di Fabrizio faceva il panettiere. Quel suo fare notturno di fuoco e farina ha lasciato in Fabrizio il senso dell’amore per il proprio lavoro e il rispetto per quello altrui. Una religione di vita. Mi riprometto prima o poi di portare a Fabrizio il mio pane, quello che via via mi sono incaponito a saper fare. Ecco, è proprio il ‘fare’ che domina i nostri discorsi, li pervade in ogni rima. Un fare antico, a tratti dilapidato nostro malgrado, smarrito in un mondo attuale che rincorre il profitto, a ogni costo, senza decoro, sacrificando la dignità creativa, più del necessario. Il fare antico era artigianato schietto racchiudeva uno sforzo fisico tale da esprimere il progetto nella sua verifica. Quanta maestria in quel fare. Un cammino che si riassumeva in un che di notturno verso una meta sconosciuta, rivelata magari solo all’alba.

Quanta luce traspare dalle parole di Fabrizio. Tanta quanta emana dai finestroni che sono una intera parete dello studio laboratorio. Mi racconta di qualcuno dei suoi servizi. Quello tra i ragazzi handicappati di Arconate. L’altro per le moto di un designer amico. O a cercar l’acqua con le donne e i bambini nei pressi di Sekota, nel nord dell’Etiopia. E ancora via attraverso cento Paesi in un girotondo intorno al mondo all’inseguimento dell’immagine perfetta, quella che non esiste, ma che, magicamente, spinge, pungola la ricerca. Quanta passione e quanto sacrificio.

Mentre discorriamo sento i passi della fatica fisica del mio scrivere. Non c’è differenza con il suo lavoro che inizia con la scelta dell’inquadratura, poi lo scatto e il culmine nella camera oscura, salvo giocare con il digitale sul computer. Si sciorinano formule matematiche di sviluppo e stampa. L’odore degli acidi colora il buio e solo la luce rivela il lavoro compiuto. Tutto come nell’attesa davanti alla pagina bianca che attende il tocco calligrafico di un sogno (o di un incubo). Consonanti che balbettano vocali. Così come la danza dei volumi, degli spazi che si incastrano in diagonali di lettura. L’arte, quale ne sia l’origine o il fine, è un fare che si inventa e realizza nella solitudine del proprio sudore.

Mentre discorriamo Fabrizio monta la Leica sul cavalletto. Mi fa sedere su di uno sgabello al centro dello studio. La luce dei finestroni mi colpisce a destra. Discorriamo mentre si susseguono gli scatti e i ritratti di me, forse un po’ sognanti o malinconici, così come la piegatura degli occhi lascia intravedere o supporre. Poi Fabrizio si siede alla scrivania. Scarica nel computer le foto e lavora alla selezione. L’occhio della Leica mi ha attraversato forse l’anima, ma è la mano di Fabrizio che ha condotto la danza delle ombre sul mio volto. Io ho raccontato della mia poesia e lui ha tradotto le mie parole nei ritratti. Come in una jam session non smettiamo neanche un istante di incrociare e articolare le nostre visioni di un giorno, di un attimo di vita, di un fiato, o magari i volti di coloro che abbiamo incontrato e conosciuto che emergono dal nostro passato e si riaccendono nelle nostre parole, sempre troppo esili o avare nel ricordo.

Salutiamo Monica impegnata per tutto il tempo al piano di sopra nel suo lavoro di preparazione degli atti di un convegno dove sarà relatrice. Andiamo a pranzo io e Fabrizio, da soli. Mentre ci accingiamo a uscire, Uma ci corre incontro. Si ferma sull’uscio. Ci guarda mentre attraversiamo il cortiletto. Il grande portone di legno si chiude dietro le nostre spalle. La intravedo voltarsi e rientrare scondinzolando al richiamo di Monica.

Percorriamo la strada provinciale che da Arconate porta a Castelletto di Cuggiono. La nostra meta è la Trattoria del Ponte dove ci aspetta qualche buon piatto di pesce. Continueremo la nostra chiacchierata intorno ai misteri della luce e le sue forme passeggiando lungo l’alzaia del Naviglio Grande.

Eccoci sull’antico canale che dal Ticino e arriva fino alla darsena di Porta Ticinese a Milano. Siamo nel Parco del Ticino e, camminando lungo l’alzaia, una via così ricca di storia, ho come la sensazione di scorgere le sagome di mille e mille ombre. Il richiamo sommesso di coloro che furono, che vissero e che fecero la storia: artigiani, maestranze, i lavoratori tutti che parteciparono alla costruzione del Duomo di Milano. Da questo canale transitavano i barconi trainati dai buoi, che trasportavano il materiale da costruzione e i marmi provenienti dal lago Maggiore. Attraversiamo il piccolo ponte ricostruito in muratura nel ‘600 (prima era in legno). Quì pare che nel 1200 sia stato linciato un podestà. I suoi concittadini furono aizzati dal clero che non accettava di pagare le tasse richieste. Corsi e ricorsi.

Ci concentriamo, Fabrizio e io, su di una caraffa di vino bianco, uno chardonnay degno accompagnamento a una buona frittura di pesce. E così via fino a gustare un buon whisky, rigorosamente single malt. Il proprietario della Trattoria del Ponte ne ha una ricca collezione. Ai muri sono appese una dozzina, forse più, di copertine della Domenica del Corriere, quelle magnificamente disegnate dal grande Walter Molino. Lui ha fermato la storia nelle sue immagini.

Sento prepotentemente la commistione della piccola con la grande storia. Il nostro esistere lascia una traccia, anche nostro malgrado, e, perché no, quest’acqua che scorre nel canale forse ne racchiude la memoria viva. Come un sussurro è come se ci ammonisse placidamente: “Vivila intensamente la tua piccola storia… Hai solo questa… Io ritorno sempre in quella grande… Tu fuggirai via… ma, non temere, io porterò di te almeno un fiato… Non dimenticare… Tu sei tutti coloro che sono stati prima di te e sarai in tutti quelli che verranno dopo… Anche i ciottoli nel mio greto lo sanno…”.

Dopo pranzo camminiamo lungo l’alzaia in silenzio. Fabrizio si ferma e scatta qualche foto con la sua Leica. Io pure raccolgo qualche istantanea di lui all’opera. E’ un autentico testimone del suo tempo, un archivista di mille volti, di mille e mille storie. Poi mi racconta di quando ragazzino veniva a giocare quì con i suoi compagni. Nuotavano anche. E c’erano le feste dell’estate.

Passiamo davanti al palazzo Clerici. Una costruzione imponente che ci osserva di là della sponda dalle sue 365 finestre e 12 balconate. Tante quanti i giorni e i mesi dell’anno ne avevano voluto i Clerici, prosàpie di banchieri del 1700, ricchi e desiderosi di competere con la nobiltà milanese del tempo. Ora la grande scalinata barocca che scende fino al canale è muta. Non accoglie più gli invitati alle feste dei padroni di casa, che qui giungevano per la via d’acqua.

Ermanno Olmi, poco avanti, ha girato alcune scene del suo Albero degli Zoccoli, in quel suo sublime canto della dignità della miseria contadina.

Sono quasi ubriaco di storie e di volti. Questo giorno mi sta avvolgendo in una vertigine magica. Ho la sensazione di essere un mediocre cronista chiamato a raccontare di storie e altre storie. Fabrizio mi racconta dei suoi, di un tempo ancora giovane. Tutti loro segnavano forte una matrice di un fare. Lui, ora, lo sublima nelle sue fotografie.

Mi racconta anche di un bracconiere che pescava di frodo per dar da mangiare alla sua famiglia. Conosceva bene i posti dove lanciare la lenza. Si faceva anche scrupolo di alimentarle le ‘sue’ acque. Dove i pesci non si riproducevano, lì rimetteva in acqua ciò che aveva appena pescato e forse non serviva all’immediato bisogno. Sarebbe poi tornato a raccogliere a colpo sicuro nuovo cibo. Un fare armonioso e attento agli equilibri della natura, non scabro o dissennato. La vita continua solo con nuova vita.

Oggi l’alzaia del Naviglio Grande è anche una pista ciclabile frequentata da quei ciclisti che si vestono da arlecchini e che nessun rispetto nutrono per chi va a piedi.

Camminiamo lenti. Le parole non servono poi così tanto. Il silenzio ci rende complici nel nostro fare, partecipi l’un l’altro di un giorno di piccole meraviglie. Rientriamo ad Arconate. Saluto Fabrizio e riprendo l’autostrada per Torino. Mi fermo al solito autogrill per una sigaretta. Ascolto Johnny Cash. Un airone si alza in volo, solennemente. Forse è lo stesso di stamattina.

 

Dario Arpaio

 

Vorrei un treno di notte.
Un treno che respira
gli odori acri
del velluto di seconda classe.
Un treno dalle luci acide
percosse dal buio.
Se ci salgo su
allora mi accomodo
in uno scompartimento vuoto.
Ripongo lo zaino della mia storia
sulla cappelliera del tempo altrui.
Raccolgo le mie braccia
sul tavolinetto pieghevole.
Ci appoggio il capo e
salto fuori dal boccascena
della vita provvisoria.
Gli occhi, liberi dal sonno,
l’incollo al finestrino.
Corro io pure dietro il vetro,
per un orizzonte bizzarro
mascherato a notte.
Mi assalgono
sagome improvvise
di giganti e castelli
impossibili tra le stelle
percosse dalle balestre
del mio treno vorace.
Lo vorrei
questo treno di notte
per tornare al viaggio
nella memoria di bimbo,
libera dalla noia
straniera e sfacciata.
Ma poi scopro che
non tornano i conti
della mia età
e i binari restano là,
sudici assenti
e immobili
nella sonnecchiante
improvvida attesa
di un evento qualunque.
Sulla massicciata vedo
un fagotto di cenci,
stracco mi saluta.

On y va! Dunque, è l’ora. Monto in sella all’Honda alle 07:30 del 26 agosto. Torno in Francia, questa volta nel cuore della Borgogna o un po’ più in là. Vado nei pressi diTreigny. Là, da vent’anni a questa parte, si costruisce lechâteau de Guédelon, un “autentico” castello del XIII secolo, una sorta di ardita scommessa di archeologia costruttiva sperimentale. Ogni tecnica e materiale, ogni strumento utilizzato rispecchia fedelmente ciò che poteva essere nel corso della nascita di un castello nel Medioevo. Magnifica avventura!
Ma sono appena partito da Torino… La strada è lunga: verso il Frejus e poi Lione, quindi Macon e più ancora a nord ovest. In totale circa 700 km. Conto di arrivare in serata a Bléneau dove ho riservato un stanza in un alberghetto dal quale poi raggiungere il castello di Guédelon in una mezz’ora di strada. I primi 100 km fino al Frejus volano via in un attimo. Attraversata la galleria, rigorosamente a 70 all’ora come prescritto, si va in Savoia. Il traffico è regolare nonostante i rientri dei francesi dalle grandes vacances. Diventerà più intenso e noioso intorno a Lione. Il caldo, però, non lo avevo previsto così terribilmente feroce. Lungo la A6 si susseguono cartelli che allertano per possibili colpi di calore e invitano a una continua reidratazione. Siamo ben oltre i 36-38° segnalati dal meteo. Mi fermo spesso per liberarmi del casco e della giacca da moto. Bevo molta acqua e integratori. Noto che anche le grandi pale eoliche, che si incontrano a tratti, sono surrealisticamente immobili.
Lasciata l’autostrada mi faccio guidare dal gps del telefonino. Oops! E’ bloccato. Scotta. Che sia morto? No, per fortuna è solo surriscaldato. Non ce la fa con quel caldo. Una nuova scusa per fermarmi a fumare un’altra sigaretta e allontanare la canicola per qualche istante. La sentiamo tutti, io e il cellulare, e anche la moto può respirare. Finalmente arriviamo a Bléneau. Le strade provinciali sono deliziose in questa parte di Francia. Tagliano foreste di alberi di alto fusto. Saliscendi dolcissimi tra basse colline di verdi variegati che si aprono agli improvvisi fragorosi gialli dei campi al sole. Chissà se Van Gogh è passato anche di qui. Spero per lui che non facesse tutto questo caldo…
Riassaporo la gioia delle due ruote. Respiro e gioisco al saluto degli alberi che sfilano al mio passaggio. Rare le auto che incrocio.
Ed eccomi, il mattino seguente, all’ingresso del castello di Guédelon. All’apertura (ore10:00) il grande parcheggio è già colmo di auto. Più tardi arriveranno anche alcuni pullman. Ho già il biglietto d’ingresso, acquistato su internet. Costa 12 euro online. Viceversa costerebbe 14. Noto, con un certo disappunto, che non ci sono mappe in italiano. Chissà perché, dal momento che sono presenti in inglese, tedesco e olandese, oltre al francese stesso. Comunque a me non crea problemi. Il castello, ormai in avanzata fase di costruzione, mi aspetta lì davanti.
Nel 1997 Michel Guyot, già proprietario del castello di Saint-Fargeau, decide di dare il via a una fantastica iniziativa. Provare a costruire ex novo un castello del XIII secolo, seguendo i criteri di un’archeologia sperimentale nelle tecniche costruttive dell’epoca, utilizzando esclusivamente materiali autoprodotti in loco con l’utilizzo di utensili e macchinari simili a quelli del tempo. Intorno al castello sono state via via edificate anche le botteghe necessarie. Si possono vedere all’opera i carpentieri, i tintori, il fabbro, il cordaro, i tagliapietre, i fabbricatori di mattoni e così via, creando l’illusione di un tuffo nel passato. Proseguendo la visita tra le varie cabanes degli artigiani mi dirigo verso un largo sentiero nella foresta e, costeggiando le rive del laghetto che fornisce tutta l’acqua necessaria, arrivo dopo circa 500 metri al mulino, una delle opere più interessanti del sito. Il mugnaio mi spiega che è stato costruito seguendo fedelmente gli indirizzi e i suggerimenti degli storici e degli archeologi che hanno collaborato attivamente in varie fasi e che gli unici attrezzi utilizzati sono stati l’ascia e il coltello. Una volta aperta la chiusa, l’acqua corrente mette in moto un meccanismo pressoché automatico, incredibile se si considera che veniva utilizzato già nell’anno Mille. A questa e altre meraviglie possono partecipare le scolaresche. Uno degli intenti del sito è anche quello didattico, non solo, ci si può offrire come volontari e partecipare per un tempo limitato alle fasi di costruzione dell’opera che secondo le stime dovrebbe essere ultimata nel 2023.
A tutt’oggi Guédelon richiama oltre 300.000 visitatori l’anno. Che dire poi dell’interno del castello. I pavimenti sono stati composti con i mattoni di argilla cotti nel forno legno poco distante dalla roccaforte. Le decorazioni delle pareti sono state create con le terre di ocra fatte dagli artigiani. La volta del salone principale è uno spettacolo di travi a incastro dove non è utilizzato neppure un chiodo in ferro! I minuti corrono veloci. Lo stupore si rinnova a ogni passo.
Mangio un panino al self service e mi delizio con una birra. Evito il ristorante medievale, già troppo affollato per i miei gusti. Acquisto qualche souvenir di produzione Guédelon alla boutique. Sono trascorse più di quattro ore da quando sono arrivato. Il caldo è terribilmente afoso. E’ ora di ripartire.
Rimonto in sella e dopo aver tracciato un itinerario di massima mi dirigo verso Nevers. Non corro. Non ho fretta. Mi sazio del cielo e… di un altro caffè e un mezzo litro di acqua gelata durante una sosta nell’unico bar di in un paesino dalle strade ordinate e pulitissime. La vita pare sciogliersi in un ritmo rallentato e sereno.
Arrivo a Nevers. Cerco una camera per la notte. Già domani si torna a casa. Altri obblighi richiedono il mio rientro. Prima o poi ripartirò all’inseguimento di quel chilometro sempre oltre, più avanti alle mie due ruote.

Dario Arpaio

Nel Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, accade tutto dal tramonto all’alba in una terrazza di fronte al mare. E’ lì che cinque amici si danno appuntamento per festeggiare il ritorno di uno di loro dopo una fuga durata 16 anni. E ricordano la loro giovinezza, i sogni, i giochi, ma soprattutto la speranza in un sistema nuovo che sembrava prossimo a realizzarsi. Era come se tutto il mondo stesse a guardarli. Non davano peso alle fatiche del lavoro nei campi di canna da zucchero o di tabacco che il regime imponeva agli studenti per farne degli ‘uomini nuovi’. Si divertivano, nonostante la povertà. Ma le ambizioni artistiche e i sogni, quelli si sono poi sperperati nella piccola storia incapace di contrastare gli eventi e lo scorrere inesorabile del tempo. Si incontrano su quella terrazza dopo quarantanni, si abbracciano, litigano, si rinfacciano errori o presunte vigliaccherie. Non sono eroi. Si rovesciano addosso l’amarezza di una realtà ben lontana e diversa da quella tanto attesa. Il pittore non dipinge più altro se non croste per sopravvivere. Chi scriveva romanzi, ha perso l’estro e non scrive più. Chi è medico, se la cava a stento. Anche l’ingegnere si adatta a lavorare come operaio. L’unico ad aver fatto carriera, ha accettato compromessi di dubbia moralità. Si commuovono nell’ascoltare California Dreamin’ dei Mama’s n Papas, che anni addietro era proibito. Ancora si schierano vivacemente tra Beatles e Rolling Stone. Le ore scivolano via nel buio della notte fino a lasciare lo spazio all’alba. Loro si sono ritrovati, i livori sopiti sono stati fugati. La vita passata si è sbriciolata nella malinconia di un giorno qualunque.

laurent_cantet-ritorno_avanaIl Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, uno dei maestri del cinema francese contemporaneo, è stato scritto a quattro mani con Leonardo Padura Fuentes, romanziere cubano assai noto in patria, il cui apporto è stato fondamentale per la riuscita dell’opera. La collaborazione tra i due ha consentito a Cantet di rendere vera una visione di Cuba, da lui molto amata pur con tutte le sue contraddizioni. Ha optato per una regia basata su dialoghi serrati esaltati da primi e primissimi piani. Sono gli occhi, le rughe e le voci degli attori a dare corpo alla malinconica e rassegnata disillusione dei personaggi. Eccelle in crescendo il cammino registico di Cantet, già vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con il suo La Classe – Entre les Murs. Il suo occhio insegue, va in cerca della realtà di personaggi senza clamore, li rende vivi, attuali. Il Ritorno a L’Avana è stato premiato a Venezia 71 come miglior film nella sezione ‘Giornate degli Autori’. Davvero felice la sua scelta di concentrare con un azzardo la vicenda in un arco temporale ristretto, esaltandone la forma nel dialogo, come a voler raccontare la vita in quanto tale, senza orpelli, attraverso la macchina da presa fissa sui personaggi con l’oceano in contraltare lontano, quasi in ascolto delle storie narrate su di una terrazza agita come un palcoscenico in un teatro sovrastante la città. Quella che vorrebbe anche essere l’Itaca del titolo originale, un luogo nel suo passato, un mito a cui anelare, quello della giovinezza perduta, del sogno infranto in un mondo nuovo che non s’è avverato.

delta-del-po-in-moto17 agosto 2013. A quest’ora avrei dovuto essere a Cadaques, Spagna. Il fato, al contrario, ha voluto che scegliessi di andare nellaprovincia di Rovigo, per meglio dire nel mezzo deldelta del grande padre fiume Po. Tra Dalì e il Po, ho dovuto optare per quest’ultimo e a questo punto non me ne pento. Verrà il tempo di potere rendere visita anche ai luoghi dove ha vissuto il grande maestro del surrealismo. In effetti ho sempre desiderato anche andare a vedere dove l’acqua dolce si fonde con quella salata, il luogo dove il grande fiume muore e rinasce mare.

La partenza è avvenuta sotto i migliori auspici di tempo buono, più che buono. Soprattutto con lo spirito giusto, genuinamente rivolto al viaggio, all’avventura dell’anima. Percorsa per intero sul mio Burgman l’autostrada da Torino a Piacenza, ho poi imboccato quella in direzione Brescia, uscendo a Cremona. Da lì è iniziata un’assolata strada statale, attraversando prima la provincia di Mantova e poi quella di Ferrara, per raggiungere la via Romea per la successiva deviazione verso Tolle, frazione di Porto Tolle.

Le strade da Cremona in poi sono disseminate di autovelox e il buon senso mi ha suggerito di non superare gli strazianti limiti consentiti. Questa accortezza obbligata ha giovato al gusto della passeggiata turistica, permettendomi di vivere diversamente il paesaggio che, altrimenti, sarebbe volato via lasciando solo vaghe immagini nella memoria. Un gran caldo ha tormentato il percorso fino a che ho detto basta! Ci vuole una pausa! Ho già bevuto due litri d’acqua e tre caffè, adesso ho fame! Attraverso un paesotto deserto nel mezzo di niente, Torriana, una frazione di Serravalle a Po e qui mi fermo in una delle rare osterie aperte in zona.

Il fresco all’interno mi rinfranca. Ci sono solo io. Vengo servito da una giovane molto gentile. Devo mangiare poco, la strada è ancora lunga… Scelgo un piatto di spaghetti al pomodoro fresco, freschissimo e saporito – eccellente idea! Immancabile la birra, l’acqua e un caffè, che bevo seduto all’esterno per fumare. Che caldo! Vabbè si riparte! Il senso del viaggio, il gusto della strada in moto, è più forte di qualsiasi disagio. Stare nel vento apparente, prodotto dalla guida sulle due ruote, unito alla visione di un qualunque panorama ripagano e alimentano quel desiderio che non ha fine. Un volo in libertà. Soli è anche meglio. Rousseau scriveva: “…ridotto a me solo, mi nutro della mia stessa sostanza che tuttavia non si esaurisce…” (Fantasticherie del passeggiatore solitario).

pescatori-dell-isola-del-polesineFinalmente raggiungo la statale Romea. È supertrafficata. Vado in direzione Venezia e imbocco la deviazione per Porto Tolle. Dopo quasi otto ore dalla partenza da Torino (!) arrivo al piccolo hotel Bussana che ho prenotato il giorno prima per telefono. Fino a Tolle è stato il caldo a farla da padrone. Non ho potuto fare a meno di riporre per un paio d’ore la giacca leggera nel bauletto del Burgman. Il sole a picco mi ha rosolato le braccia.

La stanza al primo e unico piano è decorosamente confortevole. Il Burgman è ben parcheggiato nello spiazzo interno. Scoprirò più tardi che la cucina dell’hotel è eccellente – al punto di dover ammettere di non avere mai mangiato delle vongole così gustose e soprattutto freschissime. Stefano, il giovane titolare del Bussana, mi ha offerto già dal mio arrivo tutta la sua simpatia e soprattutto tante informazioni sul come e dove meglio andare alla scoperta delle isole del delta. Mi spiega come iniziare il giro dell’isola Polesine Camerini per poi raggiungere Pila, nell’isola di Ca’ Venier, da dove posso fare un giro in barca della durata di un paio d’ore intorno agli isolotti più esterni. Fico! Non vedo l’ora!

Mi suggerisce anche di non mancare l’attraversamento dell’isola della Donzella che si affaccia sulla Sacca degli Scardovari. Lì sono disseminate le colture di mitili e vongole, tanto famose da venire esportate all’estero. Intanto, a sera, mi rilasso con una lunga doccia, una birra e un giretto a piedi prima di cena. L’appuntamento con la tavola del Bussana si rivela una piacevolissima sorpresa: ricco antipasto di cozze e vongole in guazzetto, poi immancabili spaghetti alle vongole – da non perdere! – e infine un croccante fritto misto con verdure in tempura. Il tutto accompagnato da mezzo litro di prosecco.

abbazia-di-pomposaFaccio una breve passeggiata fumando e gustando gli ultimi raggi di un sole ballerino tra poche nuvole di passaggio.
Torno in camera. È fresca al punto giusto. Adoro le camere d’albergo quando sanno offrire un buon equilibrio tra intimità e comfort. Nel mio immaginario si trasformano in gusci dove adagiarsi, distanti da tutto, facendo magari il punto del viaggio in corso, preparando la tappa successiva. Assumono il senso di un’oasi nel deserto della vita ordinaria, quella che snocciola giorni tutti ugualmente stressanti e monotoni, sperperati nell’impegno di vivere nel proprio tempo appena parcheggiati, anonimi. Ed ecco che le due ruote figurano l’esatto contrario. Si viaggia liberi, sciolti. Ci si avvicina al prossimo senza altro impegno che non sia il confronto semplice di esseri umani con altri esseri umani che si propongono in genere con maggiore schiettezza e disponibilità, perché, come dice il mio amico Italo Barazzutti, gran viaggiatore, chi va in moto da solo viene accolto come diversamente non succederebbe mai, ovunque e comunque. È l’altro che si avvicina a te e se ti offri come sei, in modo schietto, senza pregiudizi, puoi interpretare la tua umanità in una immediatezza che va scomparendo nei rapporti tra simili e dissimili, sfilacciati come sono dalla fretta di vivere per sopravvivere o, peggio, solo per arricchire.

È mattino. Vado a rendere omaggio al grande padre fiume. Seguo le indicazioni di Stefano. Raggiungo il ponte che porta all’isola Polesine Camerini. Percorro una delle tante stradine che costeggiano gli argini. Sono su uno dei rami del delta e il fiume mi accoglie in tutta la sua placida maestosità. Sono estasiato. Il Burgman segue docile la mia guida. Vado a passo lento. Siamo soli io e lui. Ci godiamo ogni metro. Mi fermo per scattare qualche foto ai pochi pescatori. Ciascuno di loro sceglie il posto più consono al proprio stile di pesca. Piazzano l’ombrellone. Hanno con sé un frigo portatile e una seggiolina. Osservano vigili la punta della canna, pronti a cogliere ogni minimo sobbalzo della lenza. Silenzio. Qualche alito di vento muove appena il fogliame d’intorno. Si respira la quiete solenne di movimenti e gesti antichi. Il fiume scorre portando con sé la memoria del tempo. L’acqua conserva tutto ciò che è stato. Conosce ciò che sarà. È sempre uguale la vita, come un battito d’ali costante nel movimento regolare che porta altrove. Se non si pone un limite, l’universo vive in noi con tutti coloro che sono stati e che saranno. Altro non esiste.

Circumnavigo – si fa per dire – l’isolotto. Mi sazio dei sussurri del fiume. Torno al ponte. Abbandono il ramo del Po di Tolle e vado verso quello di Venezia. Devo raggiungere Ca’ Venier e Ca’ Zuliani per arrivare a Pila che si affaccia sulla Laguna Barbamarco, là dov’è il centro dei pescatori e la barca che mi porterà sulle isolette. Ho in mente i loro nomi: Burcio, Isola della Batteria, con il faro in punta, Scano Boa, Busa di Dritta. Spero di riuscire a scattare qualche buona foto. Il porticciolo però è deserto. Le barche da pesca sono immobili nei loro ormeggi. Non c’è anima viva! Avrò sbagliato strada? Dove sarà l’imbarcadero? Trovo un baruccio aperto. C’è solo una giovane a servire. Chiedo, domando. Sono quasi le due del pomeriggio e lei sta per chiudere. Mi spiega che apre alle cinque del mattino quando i pescatori arrivano a consumare. Ha un figlio piccolo. Mi dà anche il biglietto da visita del proprietario della barca che fa il giro turistico. Lo chiamo al cellulare, non risponde. Cavolo! La giovane purtroppo non sa darmi maggiori indicazioni. È stata gentile. Probabilmente ho sbagliato io in qualche dettaglio sul come dove quando. Mi rassegno a mangiare un toast e bere una birra. Inaspettato mi richiama il barcaiolo e mi spiega che non uscirà a fare il giro che mi ero prefissato. Ha troppi bagnanti da accudire. D’altra parte è domenica. Sono seccato per questo contrattempo. Mi dirigo altrove.

capanni-di-allevatori-di-mitiliPercorro nuovamente la provinciale per Tolle e mi dirigo a Scardovari dove faccio una breve sosta per il gran caldo e per fare il punto della situazione.

Anticipo i tempi previsti dal mio programma di viaggio e decido per il giro della costa intorno alla Sacca degli Scardovari che separa il ramo del Po di Tolle da quello del Po di Gnocca.

Ho preso confidenza con il paesaggio. Mi sono completamente immedesimato con le solitarie stradine che costeggiano gli argini con il loro assolato silenzio. Il tachimetro segna 40-45 orari. Il Burgman risponde docile al passeggio. Mi tolgo il casco, è diventato insopportabile. Bevo un po’ d’acqua dalla bottiglietta ormai calda. Qualche uccello vola via disturbato dal motore del Burgman. Mi sento quasi un intruso. Riesco a malapena a fotografare uno svasso e poi un airone. Non un granché come risultato.

Ed ecco che alla mia vista si offrono le coltivazioni di mitili e di vongole. Non avrei immaginato che fossero così estese. Si perdono fino all’orizzonte, che in questo delta pare sempre irraggiungibile. Arrivo alla spiaggia affollata dellaBarricata. Per un attimo medito di fare una nuotata anch’io, ma i bagnanti della domenica sono davvero troppi. Proseguo lento.

Rientro in hotel. Incontro lo chef e concordo con lui per un branzino fresco alla griglia. La cena è ottima come la precedente. Una doccia ristoratrice e poi un’altra birretta. Nel fresco della camera decido di rivedere sul mio smartphone il film Easy Rider del ’69. Peter Fonda e Dennis Hopper sui loro chopper hanno segnato un’epoca con il loro mitico film a bassissimo costo. Era la fine degli anni ’60, il tramonto degli hippies. La colonna sonora è fantastica con i pezzi indimenticabili degli Steppenwolf, Jimi Endrix, Bob Dylan, dei Byrds e la ballata di Roger McGuinn. Vado indietro nel tempo. Mi ritrovo davanti vecchi sogni e volti che non vedrò più. Un attimo di malinconia ci può anche stare.

Il mattino dopo lascio l’hotel Bussana. Ho pensato di non rientrare attraversando le statali. Basta con i 70 all’ora. Quindi percorrerò la Romea fino a Ravenna per imboccare l’autostrada per Bologna. Faccio tappa alla splendida Abbazia diPomposa, quasi d’obbligo data la bellezza di questa chiesa che risale all’anno Mille. È lunedì e scopro che l’ingresso è gratuito ed è giorno di chiusura al pubblico del museo antistante. Sono l’unico visitatore al momento.

abbazia-di-pomposa-internoLa chiesa è tutta per me con i suoi affreschi dei pittori della scuola di Giotto. Vorrei scattare qualche foto ma vengo redarguito e seguito passo passo dal custode che vieta ogni scatto, anche se con macchine prive dell’uso del flash. D’altra parte non esiste nemmeno il modo di acquistare qualche cartolina ricordo o altro che illustri le bellezze dei dipinti. Il custode va a sistemare le candele votive e io, nascosto dietro una colonna o un’altra scatto al volo qualche foto.

Terminata la visita mi dirigo verso Comacchio, dove ho già avuto modo di soggiornare tempo addietro. Salgo i gradini dei Trepponti girovagando pigro tra i canaletti e poi senza indugio vado a salutare Ghibo, titolare del ristorante Il Cantinon, che ho conosciuto in passato. Tra l’altro è anche un collezionista d’arte. Rammento ancora la sua piccola casa colma di opere accatastate dappertutto. Purtroppo non c’è. Ci salutiamo per telefono. Faccio una passeggiata tra i canali e dopo essere ritornato al Cantinon per un pasto veloce mi dirigo sulla statale verso Ravenna.

Da lì in poi è solo autostrada con qualche sosta negli autogrill assediati da festosi turisti, si fa per dire. Il traffico è intenso ma scorrevole. Incrocio tanti biker, soli o in coppia, specialmente stranieri. È un bel modo di viaggiare, molto diverso e più intenso.

Al solito, come in altri rientri, incappo immancabilmente in un temporale, questa volta dopo Piacenza. Sosta obbligata sotto un cavalcavia per indossare l’antipioggia e via così verso Torino.

La pioggia cessa. Altra sosta in un autogrill per togliere l’antipioggia. Gli incontri non sono rari lungo la via e mi fermo a chiacchierare con altri viaggiatori su due ruote. C’è un senso di appartenenza a qualcosa che accomuna, quale che sia il mezzo, escludendo lo snobismo di qualche fanatico per questo o quel modello di moto. Viceversa ci si scambia opinioni, pareri, esperienze, sogni.

Arrivo a Torino senza altro intoppo. Riparo il Burgman nel box. Ho il magone ma sono già pronto per un’altra avventura, non so per dove né quando, ma so che l’importante è e sarà partire e ripartire ancora.

Dario Arpaio